lunedì 4 febbraio 2008

Madrid

Apro gli occhi nel dormiveglia faticando a restare sveglio. Mi volto e scopro che la mia vicina di posto sta dormendo sulla mia spalla. Mi alzo ed esco.
Fuori, da qualche parte nelle terre sperdute tra Saragozza e Madrid, un nevischio festeggia il nostro arrivo a quello che dovrebbe essere un autogrill. Da queste parti fa freddo, penso nella lingua dei dormienti. E poi noto che sono l’unico senza giacca e con la felpa di cotone.
Madrid. Il sabato mattina in giro non c’è un’anima. Alle 9.00 arrivo a casa di Claire che mi accoglie e mi offre una rapida colazione. La lascio continuare a dormire mentre vago per le vie della città in direzione del Prado. Improvvisamente incrocio un ricordo. Plaza Mayor. Poi un altro. Plaza del Sol. E altri ricordi si allineano davanti a me cercando nella memoria il motivo di una nostalgia presente. Chissà se anche le città ricordano i loro visitatori. Chissà se sono coscienti che sulle loro strade si svolgono gli atti principali dei drammi personali di molti.
Cambio strada e mi dirigo al Prado.



Con Claire cerchiamo per mezz’ora un posto dove mangiare rifugiandoci infine, come sempre, in una bettola. La fame ci divora e ordiniamo due menù e una tortilla. Un signore anziano che fatichiamo a capire è il gestore del locale per quanto sembri impossibile. Sputacchiando ci dice che ha finito il lomo. Non importa, rispondiamo.
Nel frattempo mi racconta di lei, del suo lavoro, del suo ragazzo, della sua nuova vita. Mi dice, senza tanti preamboli, di come sia contenta del lavoro ma anche di come sia rimasta delusa dalle sue compagne di casa. Ci contava molto per creare nuove amicizie e invece così non è stato. Capisco, le dico, e il sollievo accompagna le nostre chiacchiere di fronte a un piatto di carne, patate e uova.
Lo sappiamo, l’abbiamo imparato entrambi dopo Granada. Ma è importante dirselo. Non è solo una città, per quanto bella e affascinante, a renderci contenti. Non è solo il lavoro a nobilitare l’uomo.


Tra chiacchiere e bar arriviamo al tramonto sotto le torri pendenti. I nostri piedi sono gonfi e roventi come ferri da stiro. In metro arriviamo a casa ed io mi sparo una doccia bollente mentre Daniel prepara un aperi-cena.
Il tempo di riposare e siamo nuovamente fuori, quartiere Malasaña. Comincio a sentire la stanchezza salire dalle gambe al cervello e mi dico che, in fondo, è più che normale. Dopo una notte passata a dormire a tratti sul pullman e una giornata intera a camminare per la capitale. Alle 3 siamo a casa. Il sonno mi prende prima ancora che realizzi di essere nel letto.


Pañuelos a un euro! Seis calcetines a 3!
Le grida del mercato mi svegliano. Sembra di stare a un bazar. La gente urla sotto la leggera pioggerellina mattutina. Dopo la colazione con tostata, colacao e spremuta ci addentriamo nel mondo del Rastro, tipico mercato madrileño. Vendono di tutto. Appoggiate ai tronchi di alcuni alberi giovani stanno porte in legno massello, borchiate e con cardini. Anch’esse in vendita.
Dopo una lunga camminata, un Burger King e milioni di parole straniere nelle nostre bocche ci salutiamo alla stazione.

È stato bello, grazie. Dimmi quando posso venire a trovarti a Barcellona. Certo, ti scrivo. Mi ha fatto molto piacere. Ci sentiamo. Ciao.
Il bus esce dalla città e si addentra nel nulla che circonda la capitale. Chilometri di rocce polverose, colline raspate, sterpaglia e alberi radi costituiscono la tela su cui è dipinta Madrid. L’autostrada saggiamente corre rettilinea cercando di lasciare al più presto quella desolazione ed arrivare a destinazione. Ogni tanto si vede qualche segno di civiltà, ma sembra più un errore o un invito alla fotografia. Cartelli stradali dove neppure arriva la corrente elettrica. Case dove non vi sono strade. Un inno alla solitudine.
Scendiamo una leggera collina e senza preavviso né motivo, nella stessa configurazione di altre decine di vuoti cañon prima e dopo, compare una cittadina, incolore come le rocce.
Scendiamo ancora una volta allo stesso autogrill. Ancora una volta pessimo tempo. Piove. Dalla grande vetrata osservo la pioggia spruzzare quel nulla che posso vedere stendersi oltre le colline. Poco più sotto un hotel cerca di attirare l’attenzione con la sua gigantesca insegna al neon lampeggiante montata sul tetto. Sul retro una serie di lenzuola bianche svolazzano al vento e alla pioggia, testimoni dell’incuranza e insensatezza delle umane azioni in una landa così desolata. Intorno i cumuli di detriti e rottami sono degni del più classico dei locali di sosta del deserto degli Stati Uniti.
Nel frattempo cala la notte, sulle strade e nel mio cervello. In una coscienza elastica, accompagnata dai Radiohead, arrivo a casa.
Domattina si rinizia.

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