martedì 30 ottobre 2012

a casa




Via del Mastelletta, Bologna, quattro italiani. Via Boccaccio, Firenze, nove. Via Orcagna, Firenze, sette. Calle Spinola, Granada, un tedesco, uno spagnolo, un marocchino. Calle de la Concepción, Granada, un tedesco, uno spagnolo, un francese. Via Orcagna, Firenze, uno spagnolo e cinque italiani. Carrer Muntaner, Barcellona, tre italiani, due francesi, una spagnola, un argentino, due brasiliane, due venezuelane, due russi. Calle Baltasar del Alcázar, Siviglia, tre italiani. Via Massarenti, Bologna, quattro italiani. Via Goldoni, Bologna, un'italiana, un albanese, una francese, un'iraniana, un indiano. Via Jacopo di Paolo, Bologna, uno spagnolo, un polacco.

sabato 27 ottobre 2012

le prime nebbie



E mentre torno a casa in bicicletta, gli occhiali pieni della nebbia ottobrina della Pianura Padana, gli occhi carichi di acqua e stanchezza, vi rivedo tutti. I nomi confusi, gli uni sovrapposti agli altri. Gli israeliani che erano più di noi, le ragazze che avevano preparato un mare di cibo, buonissimo, tutto fatto a mano. I ragazzi di una gran simpatia, allegri, che trincavano come nessuno. C'era chi stava per finire medicina e chi stava iniziando. E poi c'era lui, di cui non ricordo il nome. Originario di Gerusalemme ("la città più bella del mondo", dice, e posso crederci), di madre francese, trasferitosi a Bologna a diciannove anni per studiare. Mi parla di Fantozzi, di Sordi. Scherza imitando il dialetto veneto, il napoletano, l'abruzzese. È incredibile. Tutto ciò ha dell'incredibile.

giovedì 25 ottobre 2012

se questo è un uomo



Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
   Considerate se questo è un uomo
   Che lavora nel fango
   Che non conosce pace
   Che lotta per mezzo pane
   Che muore per un sì o per un no.
   Considerate se questa è una donna,
   Senza capelli e senza nome
   Senza più forza di ricordare
   Vuoti gli occhi e freddo il grembo
   Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scopitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
   O vi si sfaccia la casa,
   La malattia vi impedisca,
   I vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

martedì 23 ottobre 2012

verso casa - day 9



Poi il ritorno sono chilometri di strada. Un nastro che corre in mezzo al Paese, da ovest a est, prendendo la via più veloce per la capitale. Una sosta in una piazzola attrezzata nel mezzo del nulla, circondata dal bosco. La pioggia e il sole. Distese di campi e animali a brucare, contee bucate senza conoscerne neppure il nome.
La notte è Dublino, nuovamente. Torniamo a bazzicare per Temple Bar e i suoi locali affollati. Ci rifugiamo in un posticcino appartato, una stanza con qualche tavolo, in stile francese. Mangiamo in silenzio, sfiniti.
Poi l'aeroporto. La manciata di ore dormite sui sedili della macchina e poi via, verso casa.


cliffs parte seconda - day 9



È quasi senza pensare che dirigiamo, poi, nuovamente verso le Cliffs. Dal litorale di Doolin, infatti, parte uno dei sentieri che permettono di percorrere tutte le Cliffs of Moher da nord-est a sud-ovest, fino al punto più alto e ancora oltre.
Poco più avanti il sentiero che costeggia il profilo della scogliera è sbarrato da un cartello: "Clare Co. Council. Caution. Very dangerous cliffs ahead". Scavalchiamo il cancello e ritroviamo il nostro sentiero. Il manto erboso comincia ad alzarsi notevolmente, piano piano, a salire mentre sulla destra le rocce scendono verticali fino al livello dell'oceano. Passiamo da un campo di capre, scavalchiamo qualche altro steccato, attraversiamo ponticelli improvvisati che permettono di passare da uno sperone all'altro, camminando su decine di metri di vuoto.
A pochi metri dalla costa alcune foche stanno cercando di procacciarsi il cibo quotidiano, nuotando senza fretta.
A volte il sentiero taglia dritto per i campi di foraggio e la scogliera sparisce, ingoiata dalle rotonde forme di madre terra. Altre si fa ardito e sfiora il precipizio, quella parete di roccia stratificata e scura che si inabissa nelle acque.
Non si capisce bene se sia ancora il nostro stanco stato di catatonia a farci proseguire, o la consapevolezza che questo mastodontico monumento naturale è il nostro addio a questa terra. In ogni caso continuiamo a camminare per oltre un'ora, risalendo il pendìo, godendoci il sole e la pioggia irlandesi per un'ultima volta, rimandando senza rimorsi la partenza ora dopo ora.
In fondo, tornare a Galway è già quasi un tornare a casa. Perchè Galway è città, perchè è già conosciuta, perchè è una tappa breve. Perchè l'Irlanda è il non civile, il non-antropizzato.

la stessa



Ci vedremo, in un'altra terra con un'altra lingua. Tu sarai la stessa, ma con un altro nome, un'altra storia, un altro sguardo. Eppure io avrò ancora tutti gli oggetti che mi hai lasciato in tutti questi anni, quando eri tu senza saperlo.
Quel portachiavi a forma di tartaruga, imbarazzante per uno della mia età. Quell'anello, così tanto più grande del mio dito. Le scarpe che comprammo insieme, che dovevano cedere col tempo, e che invece continuano a martoriarmi i piedi. I boxer, quelli rossi da pugile, che comprai perchè ti piacevano e che quindi, in fondo, sono tuoi. Il cactus che era piccolo piccolo, e che ora scoppia di salute. Le scarpe da venti euro che mi facesti comprare, che vissero senza di me, che viaggiarono la penisola ispanica senza il proprio padrone, passando di mano in mano, di lingua in lingua, finchè tornarono a me, anni dopo, in un'altra città di un altro Paese. Il pupazzo di carta che mi costruisti per esorcizzare la scimmia che aveva il sopravvento su di me e che è ancora appeso alla parete di camera mia. La cintura che mi desti per evitare che perdessi i pantaloni per le strade di Madrid. Lo scampolo di tessuto di quel blu elettrico inguardabile, che conservo solo perchè tu ci cucisti sopra un gigantesco bottone. Il braccialetto di cuoio da quattro soldi, quello con i buchi, che ci legammo al polso nell'ascensore di Barcellona, prima che questa crisi venisse a rubarci i nostri sogni di gloria. La collana che mi portasti dal Brasile, al ritorno da casa. I calzetti con l'antiscivolo, orribili. E tutti quegli oggetti intangibili che sono i ricordi.
Li avrò tutti con me. E forse, consegnandoteli, sarò finalmente libero.

sabato 20 ottobre 2012

doolin - day 9



Mi alzo abbastanza presto, tutto sommato. In camera sono rimasti solo un paio di ragazzi. Vado verso la cucina che pullula di gente più o meno sveglia che si prepara la colazione. Io vago un po' in tondo, per orientarmi. La stanza è larga quasi quattro metri con il piano della cucina su tre dei quattro lati. Il lavello, ovviamente, sotto la finestra. Il piano è disseminato ordinatamente di pan carrè, marmellate, miele, burro, succo, latte, cereali, bollitori, tostapane, tazze, piatti, tutto gentilmente offerto dalla casa. Mi metto in coda, silenzioso, e mi preparo le mie fette di toast e mi siedo ad uno dei due tavoli che stanno al centro della stanza. La gente si divide, chi sui tavoli, chi sul piano cucina, chi esce dalla portafinestra e fa colazione al sole.
Mentre persevero nel mio stato catatonico sento dall'altro tavolo parlare spagnolo. Ci sono due ragazze, capelli castani lunghi, che stanno guardando su un portatile da dieci pollici gli autobus per andare verso Galway. Noi veniamo da Galway dico, nel caso avessero bisogno di qualche informazione sugli ostelli.
Le ragazze hanno poco più di vent'anni. Finita la scuola hanno deciso di venire in Irlanda per qualche anno. Cosa fanno? Baby-sitter. Stanno in famiglia, imparano un po' di inglese e nel frattempo, appena possono, girano il Paese. Ironizzo sul solito vero clichè degli italiani e spagnoli come peggiori parlatori di inglese in Europa. Mi confermano di aver avuto molti problemi, soprattutto all'inizio. Ma ora sono tranquille, e dopo un anno tutto si è perfettamente sistemato.
Nel frattempo Lompa passa dietro di me in silenzio. La faccia non è delle migliori e la colazione a base di Maalox. Le sette pinte di ieri notte han lasciato il segno. Direi che stamattina non se ne parla di mettersi al volante. Scendiamo verso il paese, che scopriamo essere semplicemente un addensarsi delle case che stanno sulla via principale, prima del porto. Scendiamo a fare quattro passi lungo gli scogli, lastre di pietra erose dall'acqua e dalla salsedine. Ci godiamo il tepore di questo sole irlandese mentre di fronte a noi continuano a passare i traghetti che fanno la spola tra Doolin e le Aran.

giovedì 18 ottobre 2012

guinness - day 8



Poi ridiscendiamo verso Doolin. Ci sono tre ostelli sulla strada principale del paese. Il primo che incontriamo, il Rainbow Hostel, non ha più posto, mentre poco più avanti, al Flanagan's, con un po' di insistenza riusciamo ad ottenere due posti in una stanza da dodici. Appoggiamo i nostri averi in camera e ci dirigiamo subito verso la costa in cerca di cibo, visto che le cucine chiudono presto in questo Paese. Il primo locale che incontriamo è il Doolin Cafè, un posticcino carino con gli interni in stile vagamente parigino, pochi tavoli ed un'atmosfera rilassata. Ci guardiamo negli occhi, io e te, e ci rammarichiamo, come tante altre volte, di non essere qui con una ragazza. In ogni caso il locale è pieno e non ci serviranno prima delle dieci. La fame ci sta divorando e non ce la possiamo fare ad aspettare tanto, quindi scendiamo ancora verso l'edificio successivo. Il McDermotts Pub è assolutamente pieno di gente, murato, e la cucina è aperta ancora per poco. Ordiniamo al volo le consumazioni e portiamo le nostre birre con noi, cercando posto in uno dei due tavoli in legno che si trovano all'esterno. Seduto ci sono due ragazzi grosso modo della nostra età. Domandiamo se possiamo sederci al loro tavolo, visto che non c'è altro posto, e loro cordialmente ci ospitano. A questo punto fare amicizia è facile. Colin è irlandese di origine, ma ha studiato all'università a Nottingham, dove ha incontrato Ed, gallese, e son diventati grandi amici. Colin poi si è spostato per lavoro a Sidney dove progetta valvole per turbine e centrali, mentre Ed è rimasto a lavorare in università. Ora si sono dati appuntamento, dopo anni, in Irlanda, e se la stanno girando allegramente passando da una città all'altra. Colin ricorda che quando era piccolo sulle Cliffs ci venivano e non c'era nulla, non c'era il parcheggio, il centro visitatori, la piazza con i parapetti. "Parcheggiavamo la macchina a pochi metri dal precipizio e si stava lì, ad un soffio dal vuoto". Mentre mangiamo i due tracannano due pinte a testa (e chissà quante ne hanno già scolate prima che arrivassimo) ed ordinano l'ultimo piatto prima che la cucina chiuda definitivamente.
 Davanti a noi, sedute all'altro tavolo, ci sono sei donne irlandesi che ogni tanto danno da dire a Colin, il più affascinante della compagnia. Tutte quante hanno abbondantemente superato il loro peso forma diversi anni fa, forse per colpa dell'alcol che continuano ad ingerire, o delle patate fritte, o della vita. E non perdono occasione per smentire la loro femminilità ruttando come camionisti. Anche Colin sembra a metà tra l'imbarazzato ed il divertito. In compenso Ed, occhi da Elijah Wood dietro gli occhiali e capello corto, sfoggia un sorriso che non so bene se significhi allegria o ebbrezza. Io mi ricredo, e penso che sono contento di non essere qui con una ragazza.
Finito di mangiare proviamo ad entrare nel pub dove hanno appena cominciato a suonare. Tutti si sono radunati intorno alla nicchia di legno di fianco alla porta dove si sono piazzati i musicisti e non c'è un centimetro libero per passare, le sedie disposte anarchicamente ovunque, fin sotto al microfono. Tra il pubblico ci sono diversi stranieri, ma scopriamo con piacere che molti sono irlandesi. In ogni caso strano gruppo, il gruppo. Quasi anziani e molto giovani si affiancano suonando chitarre, banjo, tamburi. Sembrano suonare canzoni tradizionali, qualcuna su richiesta del pubblico. Dopo poco riusciamo a conquistare un tavolo, e per di più vicino al bagno. I bicchieri intanto continuano ad arrivare e venir scolati, noi a offrire a loro e loro a noi, con la differenza che i due trincano con velocità doppia rispetto a noi. Alla nostra quarta pinta Colin è euforico, comincia a cantare a squarciagola le canzoni, mentre Ed non gli sta dietro e se la ride. Poi si gira ghignando e ci dice: "Sapete a chi somigliate voi due? A Mario e Luigi!", riferendosi a Mario Bros.
Ad un centro punto un ragazzino, un teen-ager, si alza e va verso il microfono, chiedendo se può cantare. Il gruppo, molto contento, lo fa sedere e si mettono d'accordo sulla canzone. La chitarra attacca e l'auditorio va in visibilio (un pezzo che tutti conoscono tranne noi). Il ragazzo, acne sulle guance e sguardo timoroso, tira fuori una voce ruggente che non ti aspetti, e carica l'aria sostenuto dal possente coro dei clienti del bar.
"Qual è il vostro record di birre?" esordisce Colin ad un certo punto. Noi ci guardiamo e rispondiamo umilmente, sapendo benissimo che verremo seppelliti dalla sua risposta. E infatti così è. "Io il mio record l'ho stabilito ieri" prosegue mentre Ed se la ghigna tirando fuori il cellulare e mostrandoci una foto della sera prima. "Quattordici pinte in sette ore". Impressionante. Non so come facciano. Nella mia mentre si forgia una battuta che però non proferisco. Un bel Guinness. Ora capisco, in ogni caso, perchè Colin che dice di avere ventisei anni fisicamente sembra che ne abbia dieci in più.
Verso le due usciamo dal locale mentre i nostri due amici rimangono a farsi qualche bicchiere della staffa(!). Fuori la pioggia è nebulizzata, si ferma sugli occhiali creando la nostra piccola discoteca personale. Io comincio a correre nella notte cercando di smaltire l'alcol, corro in salita con tutto il fiato che ho finchè sparisco, esco dal cono di luce dei lampioni e mi ritrovo nell'oscurità completa.
Rientriamo in ostello. Tu vai a dormire diretto, mentre io mi addormento per una buona mezz'ora sulla tazza del cesso. Di stare disteso proprio non se ne parla. Poi, quando ho preso abbastanza freddo e mi sento un po' meglio, mi avvio anch'io verso la camera, ma era uno scherzo, ancora non ce la faccio. Allora mi siedo a lato della porta, gambe lungo il corridoio, e mi metto a dormire lì. Un'ora dopo sento dei passi. Mi sveglio e vedo i miei nuovi amici che stanno rientrando nella camera di fianco alla nostra e mi guardano con aria interrogativa. "It's all right, guys. Goodnight" dico sfoggiando un sorriso di cartone. Loro entrano ed io mi riaddormento. Verso le quattro mi alzo e vado a godermi il mio meritato sonno in cima al letto a castello.

mercoledì 17 ottobre 2012

cliffs of moher - day 8




Parcheggiamo ed usciamo dalla macchina. Tira un vento forte, il cielo è grigio e minaccioso, parente dei cieli di montagna capaci di tutto. Oltrepassiamo il varco di un simbolico ingresso e ci avviamo lungo una passeggiata lastricata fino ad uno spiazzo. A destra il sentiero si inerpica per una scala monumentale (pure troppo) che raggiunge una piccola torre di vedetta. A sinistra diviene un sentiero che presto termina in un piccolo belvedere. Ci avviciniamo al bordo e, finalmente, le vedo in tutta la loro magnificenza. Le Cliffs of Moher. Le Scogliere della Rovina. Una serpentina di otto chilometri di roccia che termina a picco sull'oceano, verticale, in caduta libera per oltre duecento metri. Ma non è tanto l'altezza ad impressionare. È la conformazione. Colossali masse di roccia che si lanciano verso il nulla, verso l'oceano, in un tuffo muto e congelato da millenni. Una costa fatta di promontori, di tentativi di assaltare l'orizzonte. Pareti verticali dove le ere geologiche sono messe a nudo, scoperte.
Ci si presentano, le scogliere, in un'atmosfera apocalittica. Una tempesta che non riesce ad esplodere imperversa tutto intorno, scaricandosi in acqua, poco lontano. L'aria si fa strana, azzurrognola, poi sulfurea. Un sole ostinato prova a sfondare la coltre di nubi, illuminando insperatamente porzioni di scogliera che si stagliano sullo sfondo cupo.
Sul parapetto, davanti a noi, un cartello recita: "Hai bisogno di parlare? Chiamaci. Samaritane" riportando poi un numero di telefono. A quanto pare queste zone sono famose per essere teatro di numerosi suicidi. Guardo giù. Non lasciano molto scampo.
Il percorso cammina sul bordo del precipizio, protetto da un parapetto. Presto la passeggiata si conclude con una bassa barriera di lastre di pietra che segna la fine del percorso ufficiale. Il tempo continua a peggiorare, la pioggia è, a volte, battente. La gente sta tornando verso il parcheggio, camminando in senso opposto al nostro. Noi ci guardiamo un secondo ed attraversiamo la barriera. Dall'altra parte il sentiero è un percorso sterrato scavato nella terra che corre a mezzo metro dal precipizio. Di protezioni neanche a parlarne. Rispolvero le mie antiche vertigini e andiamo avanti.
Due ore dopo stiamo ancora camminando senza sosta in direzione sud-ovest. Il cielo si è ripulito, il vento si è placato, e le scogliere sono illuminate da una tenue luce vespertina.

È curioso come, anche in questo caso come a Santiago, la maestosità della natura mi trasmetta quel senso di sacro e di trascendente che le chiese ormai non riescono più a trasmettermi. Quasi che l'immobile indifferenza della natura esercitasse su di me un senso di figliolanza. Come se la meta di un viaggio come questo, on the road, non potesse che essere il tornare all'origine di tutto, ad un linguaggio pre-logico e anticivile. È la natura, l'immensità di tutto questo che ho davanti, ad essere cattedrale a se stessa.

corcomroe abbey - day 8



È vagando per diverso tempo che, finalmente, la incontriamo. Al fondo di una strada bianca senza uscita, fiancheggiata da alti alberi ricchi di foglie. Quello che ci si para di fronte è la Corcomroe Abbey, un imponente complesso abbandonato costruito completamente con la pietra calcarea tipica del Burren. Fondata alla fine del XII secolo, l'abbazia conosciuta come "Santa Maria della Roccia Fertile"divenne il monastero dei Cistercensi che vi rimasero dal 1249 al 1628. Quello che ora rimane è una maestosa chiesa, anche questa senza più il tetto, a croce latina. La grande navata centrale è interrotta da una parete che introduce un secondo ingresso assiale, ma non riusciamo a ricostruire esattamente se fosse un esonartece o  se la costruzione venne ampliata mantenendo la vecchia facciata. Ai lati i resti di due navate minori, coperte ad un livello più basso, danno corpo allo spazio centrale raccordandolo con il chiostro. Due volte a crociera, costolonate e intrecciate, coprono l'ampia abside che termina con un'alta trifora a sesto acuto ed una piccola monofora in chiave. Un semplice altare in pietra si erge al di sopra di una pavimentazione ormai inesistente, ridotta ad un acciottolato.
Tutto il complesso, non solo l'antico chiostro (di cui rimane pressochè nulla), ma perfino dentro la chiesa, di fronte all'ingresso, nelle cappelle laterali, nella nave centrale e nelle nicchie absidiali, è invaso da lapidi e tombe. Quello che era un luogo di preghiera e cultura è ora divenuto un piccolo cimitero a cielo aperto.
È strano addentrarsi in questi luoghi. Passeggiare sulle teste di uomini morti secoli fa. Rubare il silenzio e la sacralità con le nostre parole e le nostre fotografie. Mi sento un po' un corvo, saltellando trai vari muretti diroccati. E, sotto un cielo plumbeo, lasciamo questo luogo di pace.

domenica 14 ottobre 2012

riposo - day 8



È proprio questo il bello di perdersi. Sono sempre stato d'accordo coi situazionisti, a riguardo.
Vagando per il Burren decidiamo di fermarci in un luogo a caso per pranzo. Seguiamo una direzione non ben precisata finchè scorgiamo un piccolo cartello. Ne seguiamo le indicazioni che ci portano su una stradina bianca che muore in un cancello chiuso. Parcheggiamo, attraversiamo un paio di muretti a secco, fiancheggiamo campi dove le mucche ci osservano come se fossimo strani esseri, e ci ritroviamo, finalmente, in un piccolo appezzamento recintato occupato quasi completamente da un antico edificio. Come tante altre chiese dell'epoca, di questa son rimaste in piedi solo le massicce pareti perimetrali, mentre il tetto è scomparso lasciando l'interno a cielo aperto. I muri sono composti da pietre sbozzate di grandi dimensioni. Non posso fare a meno di notare alcune singolarità che balzano all'occhio, come le eleganti mensole che commentano il punto in cui il tetto si congiunge con l'angolo dell'edificio. O la presenza a lato dell'ingresso, grossolanamente chiuso con alcuni massi, di due facce che emergono dal profilo della costruzione. Una, poco al di sotto di una dalle mensole, ritrae una testa umana con gli occhi chiusi ed i lineamenti rilassati. L'altra è un cane, o un lupo, a guardia di uno degli stipiti.
Ci sediamo su di una roccia che affiora dall'erba e cominciamo a mangiare. Intorno non si sente un rumore, solo il vento che spazza i campi e ci passa sopra la testa. Man mano che ci guardiamo intorno scopriamo che quest'area veniva utilizzata per le sepolture ed ancora ne rimangono i segni. Defilata, all'ombra di un bell'albero, sta una curiosa tomba, molto simile ad una tenda: due fogli sottili di pietra appoggiati l'uno all'altro e tamponati da due lastre triangolari. Un luogo per il riposo, ora come allora.

burren - day 8



Attraversa l'Oceano, sul fondale, e risale poi la costa creando questa landa che ci circonda. È il Burren (Grande Roccia), l'immenso tavolato calcareo unico al mondo che occupa buona parte del Claire. Quello che sulle Isole Aran era una prova generale interrotta bruscamente dalle acque, qui diviene un paesaggio esteso oltre duecento chilometri quadrati. Le colline che si alzano dal profilo della costa sono composte da una superficie calcarea fessurata dall'acqua in cretti organici all'interno dei quali si trova spesso una rigogliosa fauna. Non è raro incontrarsi perfino piante di origine mediterranea o alpina. Ovviamente una stranezza naturale del genere non è una scoperta recente. Nell'area si trovano diversi siti risalenti alle civiltà del neolitico, come il Dolmen di Poulnabrone, costituito da due sottili lastre di pietra che ne sostengono una, posta in orizzontale, lunga quasi quattro metri. Qui, all'incirca tremila anni prima di Cristo, vennero sepolti una ventina tra adulti e bambini.
È impossibile non immaginarsi lo stupore che un luogo del genere doveva suscitare su popolazioni tanto primitive. Popolazioni per le quali l'esistenza era ancora una lotta per sopravvivere alla natura. E pensare che questi uomini abbiano dedicato le loro energie alla costruzione di un luogo sacro di tale eleganza primordiale, qualunque fosse la divinità che sentivano di doversi ingraziare, è grandioso. Civiltà che ancora utilizzavano asce di pietra levigata, come furono rinvenute trai sepolti, trovarono il modo di erigere una costruzione che desta stupore tutt'ora. Un proto-spazio, un tempio alla sacralità che il luogo stesso suscita. Come non pensare che qui, su queste colline calcaree leopardate di verde, vivesse un qualche essere superiore? Come non immaginare che immensi fogli di pietra sospesi da terra fossero il segno indiscutibile della potenza della natura che permetteva all'uomo un tale prodigio?


frontiere



Francia, Perù, Messico. Spagna, Marocco, Germania, Moldavia, Austria, Giappone, Portogallo. Guyana Francese. Australia, Rèunion. Danimarca, Argentina, Brasile, Venezuela, Russia, Turchia. Stati Uniti, Canada, Sud Africa, Grecia. Uruguay, Romania, Senegal. Iran, Albania, Libano. Polonia, Bulgaria, Inghilterra, Irlanda, Repubblica Ceca. Cina?

sabato 13 ottobre 2012

senso di colpa



Scegliere di darsi la colpa. Un'altra variante che non passa mai di moda, soprattutto fra coloro che si identificano con un'idea di sè di persone buone e sensibili.
La perfezione è impossibile, il futuro imprevedibile, le conseguenze delle nostre decisioni imperscrutabili; per cui, anche se siamo di indole dedita e onesta, non è verosimile riuscire a non danneggiare mai nessuno. Possiamo così a piene mani darci la colpa, sentirci responsabili della delusione che ci pare di intravedere in x, della mancanza di motivazione dei dipendenti, della pressione alta del capo, della morte del canarino, delle ansie della figlia, della depressione della suocera, oltre che della nostra.

Ludovica Scarpa - La capra canta

galway - day 7



Galway è una gran bella città. Entriamo nell'ostello che si trova sul corso, Quay Street, e come al solito la fortuna ci assiste. La receptionist abbassa la cornetta e dice che due persone se ne sono appena andate e che quindi possiamo prendere il loro posto. Perfetto. Saliamo al terzo piano dove si trova la nostra stanza che a stento contiene i due letti a castello. In compenso la finestra è un portento. Il muro è così spesso ed il bancale così profondo, che diventa un piccolo spazio intimo in cui sedersi e guardare, attraverso i doppi vetri, la gente in strada. Ci prepariamo e scendiamo.
Lungo tutta Quay Street e High Street ci sono decine di musicisti di strada con i più differenti strumenti. Una giapponese tutta intenta a suonare l'arpa, xilofonisti acrobati, chitarre e cajònes de flamenco, banjos. Dai pub, invece, esce musica rock.
Ci fermiamo a mangiare in un piccolo localino in posizione defilata e ci restiamo finchè non chiude. Un salto in un paio dei grandi pub e poi verso il fiume dove i ragazzi sono riuniti a gruppi. Il lungo fiume qui è sorprendentemente vivo. Non ci sono argini, l'acqua scorre semplicemente un metro e mezzo al di sotto della pavimentazione e sul bordo stanno seduti a bere decine di ragazzi. Mi sorprende positivamente il fatto che, nonostante le zone siano potenzialmente pericolose, ci siano così tante ragazze sole, fuori dal gruppo, a coppie.
Oltrepassata una delle porte che ancora rimangono dell'antica fortificazione, ci troviamo a passare di fianco ad un locale interessante, ricavato nell'edificio che sorge lungo la banchina. Purtroppo appena tentiamo di entrare ci dicono che è chiuso e rimaniamo con la voglia di passarci qualche ora.

La mattina scendiamo in strada per l'ultima ricognizione di rito (Galway, come tutte le città irlandesi, offre il meglio di sè nella vita notturna) e prima di riprendere la macchina facciamo in tempo ad ascoltare un vecchino che, nessuno sa come, ha portato un pianoforte verticale di un bel color castagno all'incrocio tra le strade del centro e lì, alle dieci di una domenica mattina, delizia i passanti con brani di musica classica.
Che chiedere di più.


bodhràn - day 4




Ci aggiriamo un po' per il centro di Clifden, il che significa fare avanti e indietro per Market Street e Main Street. Tutti i luoghi di interesse del paese (dal supermercato alle poste, dalla chiesa ai numerosissimi pub, dall'albergo all'internet point) si trovano su queste due strade che si incontrano con un curioso angolo ottuso in un obelisco metallico di dubbio gusto. In ogni locale in cui entriamo incontriamo qualcuno che sta suonando dal vivo per i numerosissimi turisti che in questi giorni affollano la cittadina. In questi giorni, infatti, è in corso la mostra mercato dei Pony del Connemara, evento tanto rinomato da portare su queste coste gente da tutta l'Irlanda e saturare la capienza ricettiva del paese. Ci infiliamo in uno dei pochi pub in cui la cucina è ancora aperta e veniamo fatti sedere in un piccolo tavolino di fianco al palco, una semplice pedana in legno appoggiata alla porta in legno che chiude il vecchio accesso al pub.  Sopra vi trovano posto un cajòn de flamenco, un bodhràn (tamburo tipico in queste zone), una tastiera ed alcune pedaline. Alla porta sono appesi un banjo e due chitarre, una classica ed una acustica.
Dopo poco un pingue signore dai capelli bianchi, vestito completamente in nero, fa la sua comparsa sul piccolo scenario e comincia subito ad interagire con il pubblico. Dà da dire un po' a tutti, chiedendo da dove veniamo, e riserva ad ognuno una battuta. C'è una famiglia di statunitensi che tentano di dimostrarsi  disinvolti nella loro rigidità di cera. Una coppia di londinesi attempati. Una famiglia di Monaco che sta cercando di indovinare, dal nostro modo di parlare, se siamo spagnoli o italiani. Dall'altra parte del locale scorgiamo qualche gruppo di ragazzi sicuramente italiani e qualche francese.
Sul palco salgono poi due ragazzi, uno imbraccia la chitarra e l'altro il banjo. L'uomo in nero, che mi ricorda tanto un Johnny Cash nostrano, è evidentemente lo spirito goliardico del trio e continua a far ridere i clienti del pub con una serie di battute che, ne sono certo, si ripetono più o meno ogni sera. Come il suo cavallo di battaglia che apre la strada alla musica: "Riempite i calici e brindiamo. E ricordate: più bevete, meglio suoniamo ".
D'accordo. Lompa (un purista, si sa) sostiene che sia tutta musica per turisti, uno spettacolino che ci propina esattamente quello che vogliamo sentire. Una sorta di tipicità forzata. Un pizza-pasta-mandolino per stranieri. Eppure anche così hanno il loro fascino. Canzoni che hanno addosso un misto di allegria, di voglia di vivere e nello stesso tempo di malinconia. Mentre il tamburo tesse il ritmo della storia che la voce sta cantando, le melodie raspate sulla chitarra sono decorate da un banjo che corre velocissimo da una nota all'altra. Il nostro amico suona a volte il bodhràn, altre il cajòn de flamenco, altre ancora due cucchiai, messi schiera contro schiena e fatti schioccare sulle dita con grande abilità. Capisco perchè gli irlandesi si siano fatti la fama di essere i musicisti più rapidi al mondo.
Poi c'è un momento di pausa. I musicisti vanno a fumare fuori, a sgranchirsi. La gente si rilassa e ritorna a parlare ad alta voce. I vassoi di Guinness continuano a viaggiare dal bancone ai tavoli. Il ragazzo che suona il banjo scompare a chiacchierare con il nostro Johnny, mentre il chitarrista, un ragazzo che avrà all'incirca 25 anni, si ferma a chiacchierare con gli statunitensi, che sbandierano contenti il loro album appena comprato. Dice di essere stato anche lui per un po' di tempo negli States, a causa di una ragazza. Per un attimo il tono si intristisce ma poi, prontamente, risfoggia il sorriso amabile di sempre e con una battuta rimette tutti di buon umore.
Un attimo da nulla. Eppure mi basta per farmi pensare a quanto siamo abituati ad usare le nostre maschere, lavorative o meno. A come essere buffoni aiuti a non far entrare nessuno là dove la vita più brucia.

venerdì 12 ottobre 2012

dùn dubhchathair - day 7




Lo chiamano Black Fort, il forte nero, ma non ci aspettiamo né palizzate né indiani.
Scendiamo a costeggiare il porto e poi proseguiamo sulla strada che aggira la piccola baia e punta verso sud-est. Intravediamo la piccola pista di atterraggio, in lontananza, poi abbandoniamo il tracciato principale per addentrarci verso sud-ovest. Le poche case si fanno rade, i muretti a secco sempre più bassi, la strada asfaltata diventa una successione di pietre annegate in un sentiero. Decidiamo di abbandonare le biciclette dentro un recinto e proseguiamo a piedi, risalendo sotto il sole cocente la collina. Che poi è strano chiamarla collina, visto che lo strato di terra che ricopre la pietra è sottilissimo, quasi una pelle dalla peluria verde ed effimera. Arrivati in cima, il sentiero si allarga e prosegue dritto dritto fino all'orizzonte. Ci guardiamo intorno e non vediamo nulla che somigli a un forte, solo questo tracciato bordato da due ordinate file di pietre che distinguono il nulla dal nulla. Procediamo e l'erba scompare sempre più, sopravvivendo solo nelle pieghe della pietra.
L'altopiano, infatti, è una gigantesca e grigia placca calcarea scavata dall'acqua piovana in piccole e sinuose gole  profonde qualche decina di centimetri. È proprio in queste gole che la terra si annida generando episodi di verde. Il risultato è un paesaggio arido, un deserto di pietra leopardato dall'erba.
Poi l'altopiano finisce, e lo fa senza preavvisi. Ancora una volta la roccia viene tagliata di netto precipitando per decine di metri fino all'oceano. Ed in questo tuffo statico rivela tutto il suo passato, scoprendo le numerose fasce che la compongono, tutte orizzontali. Le guardo e mi vien da pensare che non sono altro che rughe, segni lasciati dal tempo sulla superficie di questa terra intrisa di miti e di mistero. E, come le rughe di una grande saggia, esercitano su di me un grande fascino.
Finalmente vediamo verso l'orizzonte una conformazione simile a quella del Dùn Aonghasa e ci incamminiamo procedendo paralleli alla scogliera. Ci ritroviamo così ad attraversare una miriade di muretti che, ancora una volta, dividono il nulla dal nulla. Tutti paralleli tra loro e perpendicolari alla costa, sono costituiti da pietre disposte, questa volta, in verticale, le une appoggiate alle altre. Una costruzione che mi ricorda il Muro di Frisia. Come per i campi del paese, le pietre sono state tolte dalla terra per dissodarla ed al tempo stesso riutilizzate per le recinzioni. Qui, però, non c'era nulla da dissodare: i muretti a secco restano a fare la guardia ad un'infinità di piani rocciosi, di scalinate naturali, di canaloni calcarei che occupano tutto l'orizzonte. Non mi sorprende che, con un paesaggio del genere, proliferassero le leggende. Che nascessero storie che ora chiameremmo fantasy. Certe zone del Signore degli Anelli potrebbero benissimo essere ambientate qui. Già ce li vedo, orchi e nani a combattere su questa landa pietrosa.
Finalmente arriviamo. Il forte è, ancora una volta, una cinta muraria a semicerchio di pietre sbozzate. L'ingresso al Dùn Dubhchathair è costituito da una strettoia che costringe a passare rasente tra mura e precipizio. Protetto rispetto alla terra, si apre poi verso l'oceano lasciando spaziare lo sguardo all'infinito. Al riparo di questa "fortificazione" sono rimaste solo le pareti basali di quelle che dovevano essere le abitazioni: stanze di forme organiche le une addossate alle altre, tutte rivolte verso lo spazio aperto. Ci accasciamo dentro una di queste, cercando ristoro per la nostra pelle ormai quasi bruciata nella poca ombra che ancora garantiscono le vecchie case.

sabato 6 ottobre 2012

educazione moderna



È sabato mattina ed il cervello è ancora vuoto. Sull'autobus ritrovo la solita umanità di terza classe, quella per cui la scelta dei mezzi pubblici non ha nulla a che vedere con la sensibilità ecologica ma con una necessità economica. Ragazze cinesi in tiro dalle nove di mattina, una signora russa infagottata nel suo maglione blu elettrico anni '80, pakistani, bengalesi con il loro carico di buste, ucraini in jeans e maglietta. E poi, ovviamente, gli anziani.
Mentre sono lì, con ronzìo del cervello in accensione, sale il tipico anziano che ha voglia di parlare. Appena imboccate le porte si avvicina all'autista ed esordisce (continuando un suo immaginario dialogo) con: “Nessuno paga il biglietto all'Atc, ma poi tutti si lamentano”, buttando lì un barlume di lucidità inaspettata. Si siede e comincia a rivolgersi un po' a tutti, indistintamente, guardando in direzione della gente seduta sull'altro lato. “Io prima andavo in bicicletta ma poi mi hanno messo una protesi, ci hanno messo un anno a darmi i soldi perchè sono vecchio. Ci andavo dappertutto, ma ora mia figlia mi ha fatto l'abbonamento mi ha dato un telefonino, perchè dice che sai quando esci ma non sai quando torni, con tutta sta gente che corre, che beve, tutti di fretta, dove andranno poi.Quando ero giovane io si andava con le macchine a pedali e c'erano molti meno incidenti, guardi se questo dev'essere il progresso. E per fortuna che ho trovato posto a sedere, l'altra volta c'era un ragazzo proprio lì, mi ha guardato e non si è mosso, io non gli ho detto niente, sa, era di quelli con l'anello al naso, come le mucche di mia sorella, e non si sa mai, meglio non dare da dire, mi dica lei se questa è educazione, guardi, io ho solo la quinta elementare ma certe cose le ho sempre rispettate e ora invece questa è l'educazione moderna...” e continuando a parlare inforca nuovamente le porte e scende.

giovedì 4 ottobre 2012

dún aengus - day 7



Il sentiero si inerpica. Più che un sentiero è un tracciato segnato da muretti a secco che ci portano a salire il pendio attraversando un deserto di pietra. Qua e là solo qualche ciuffo d’erba e due solitarie vacche. Attraversiamo quello che viene chiamato “cavallo di Frisia”: un’ampia area che circonda la prima cinta muraria costituita da pietre infilate nel terreno con la punta rivolta verso chi si avvicina al forte. Questo stratagemma impedisce a chi volesse attaccarlo di avvicinarsi a cavallo e gli impone di procedere unicamente a piedi. Geniale, assolutamente geniale se penso che è stato ideato da popolazioni che risalgono a prima del primo millennio avanti Cristo. Attraversiamo la prima cerchia muraria, un accatastamento di pietre a secco sbozzate spesso, nella parte più ampia, fino a quattro metri. Il forte chiamato Dún Aonghasa (Dún Aengus in inglese) è costituito da quattro cinta murarie concentriche di muri a secco che racchiudono uno spazio centrale sacro. Costruito a ridosso della grande scogliera, il sistema difensivo presenta una forma a D che termina direttamente sul precipizio: un centinaio di metri di caduta libera verso l’oceano. Nella cerchia più interna si trova ora semplicemente una grande pietra rettangolare. Una enorme piattaforma naturale, piana, quasi perfettamente rettangolare, che termina improvvisamente nel punto più alto della scogliera, racchiusa da quattro cinta murarie concentriche. E, dove il muro non rende cieco lo sguardo, l’oceano a perdita d’occhio, e la costa irlandese per centinaia di chilometri.
Non mi stupisce che qui i druidi tenessero i loro rituali stagionali, che qui avvenissero probabilmente sacrifici, e che qui menti suggestionabili e semplici si facessero invasare dalla potenza incontrastata della natura. Noi, incapaci di reale stupore a causa della nostra conoscenza, attirati dai depliant più che dal luogo, resi non impressionabili da fotocamere estremamente sensibili, noi, popolo di consumatori di cultura take-away, restiamo in silenzio di fronte a tanta semplice meraviglia.
E, sempre più, mi si conferma un’intima teoria. Che ciò che realmente vale, ciò che realmente impressiona (spazialmente, umanamente e culturalmente) non trova spazio in una fotocamera.

aran - day 7




Scorriamo di fianco alla costa in sella alle nostre bici fino ad un punto in cui la costa si fa più dolce, e le placche di roccia formano delle terrazze nell’acqua. Un piccolo casottino bianco segna il punto di avvistamento delle foche. Risaliamo la strada fino ad una stretta spiaggia bianca, una delle poche zone sabbiose dell’isola. Qui si trova un crocicchio di strade che portano in tutte le direzioni. Di fatto l’isola è percorsa da un’unica strada, da sud-est a nord-ovest, sulla quale si trovano tutte le case. Solo nella parte centrale, più ampia, questa spina dorsale si divide in due, con una strada sul crinale ed una lungo la costa. A sud di questa strada l’isola si trasforma in un deserto di pietra, una successione di lastre senza vegetazione che terminano bruscamente nell’oceano con spettacolari scogliere.
Superiamo la spiaggia e ricominciamo a salire. La strada volta a sinistra, a sud. È la via che conduce a Dùn Aonghasa. Proprio nell’incrocio si trovano due edifici dall’aria vagamente mediterranea. Bassi villini di bianco calce e gli infissi colorati di azzurro o giallo. Sulla facciata del più caratteristico dei due, sotto al tetto in paglia evidentemente appena rifatto, spiccano rigogliose piante in fiore. La casa è un bar e ne approfittiamo per una seconda colazione a base di tè e dolci tipici. Ci sediamo di fuori a goderci questo magnifico sole che è venuto a salutarci. Osservo l’altro edificio. Nonostante l’apparenza risulta essere un edificio turistico, dove vendono souvenir dell’isola. Mentre mi godo i fiori e la paglia due bambini ci scorrazzano intorno. Il piccolo, dalla carnagione ed i capelli innegabilmente irlandesi, continua a girare trai tavoli con una confidenza che rivela la sua familiarità con il luogo. La bimba, invece, ha la carnagione più scura, i capelli lunghi fin sotto la spalla liscissimi e di un nero corvino. Il taglio degli occhi tradisce origini vagamente orientali. Si mettono infine a giocare sul tavolo di fianco al nostro. Provo a prestare attenzione a quello che dicono, ma non capisco. Finchè arriva la mamma, con una monovolume con altri due bimbi a bordo, a prenderli. Si intrattiene un po’ in chiacchiere con la padrona del bar che nel frattempo, con ancora il grembiule, sta innaffiando i fiori. E così capiamo, non capendo nulla, che la lingua che sentiamo è il gaelico e che, a quanto pare, la famiglia è una delle poche che effettivamente vivono sull’isola.

martedì 2 ottobre 2012

apnee



Lo ricordo perfettamente, senza fatica né oggettività. Lo ricordo perfettamente come si ricordano gli eventi del passato, come bolle di emozioni e profumi.
Ero nel bagno piccolo, quello disotto. Ci facevamo la doccia, in quel bagno. Pensili celesti e decorazioni floreali sulle piastrelle alle pareti. Una luce giallastra dall'alto. Ricordo come mi impegnassi per stare da solo sotto il getto dell’acqua e tentare (non che ci riuscissi benissimo) di insaponarmi un po’, qua e là. Mentre ero tutto indaffarato a spargere la schiuma, il babbo (allora un gigante che supervisionava il tutto) mi disse: “Adesso, mentre sei sotto la doccia, prova a tenere gli occhi aperti. E a respirare”. Infatti quando mi infilavo sotto il getto dell’acqua chiudevo gli occhi e restavo in apnea e per tornare a riaprirli e a respirare dovevo spostarmi dove non mi arrivasse l’acqua. Così le mie docce erano un continuo saltare dentro e fuori dal fiotto.
Rimasi perplesso. Già mi costava tanto insaponarmi. Ora dovevo aggiungere questa nuova sfida.
Ricordo che mi misi sotto, occhi chiusi e bocca chiusa. Poi aprii piano le palpebre. L’acqua cominciò ad entrare, ad affogare la vista. Ma in fondo non era poi così fastidiosa. E allora schiusi la bocca e respirai. Ed il respiro, da sincopato e timoroso, divenne sempre più naturale.

Lo ricordo distintamente, con tutti i colori e le parole che forse non ha mai avuto. Ma lo ricordo assolutamente reale. Ed il ricordo era del momento in cui, improvvisamente, avevo conquistato qualcosa e mi ero sentito parte del mondo dei grandi.

di così - brunori sas



Che cos'è quest'ansia / Che mangia la pancia
Che cos'è che manca / Forse un conto in banca

E quello che voglio / È viverla meglio
Di così

Ho lasciato i sogni / Chiusi nell'armadio
Che dentro al cassetto / Non ci stanno più

Quello che voglio / È vivermi meglio
Quello che voglio / È vivermi meglio
È vivermi meglio / Di così