Via del Mastelletta, Bologna, quattro italiani. Via Boccaccio,
Firenze, nove. Via Orcagna, Firenze, sette. Calle Spinola, Granada, un tedesco,
uno spagnolo, un marocchino. Calle de la Concepción, Granada, un tedesco, uno
spagnolo, un francese. Via Orcagna, Firenze, uno spagnolo e cinque italiani.
Carrer Muntaner, Barcellona, tre italiani, due francesi, una spagnola, un
argentino, due brasiliane, due venezuelane, due russi. Calle Baltasar del
Alcázar, Siviglia, tre italiani. Via Massarenti, Bologna, quattro italiani. Via
Goldoni, Bologna, un'italiana, un albanese, una francese, un'iraniana, un
indiano. Via Jacopo di Paolo, Bologna, uno spagnolo, un polacco.
martedì 30 ottobre 2012
sabato 27 ottobre 2012
le prime nebbie
E mentre torno a casa in bicicletta, gli occhiali pieni
della nebbia ottobrina della Pianura Padana, gli occhi carichi di acqua e
stanchezza, vi rivedo tutti. I nomi confusi, gli uni sovrapposti agli altri. Gli
israeliani che erano più di noi, le ragazze che avevano preparato un mare di
cibo, buonissimo, tutto fatto a mano. I ragazzi di una gran simpatia, allegri,
che trincavano come nessuno. C'era chi stava per finire medicina e chi stava
iniziando. E poi c'era lui, di cui non ricordo il nome. Originario di
Gerusalemme ("la città più bella del mondo", dice, e posso crederci),
di madre francese, trasferitosi a Bologna a diciannove anni per studiare. Mi parla
di Fantozzi, di Sordi. Scherza imitando il dialetto veneto, il napoletano,
l'abruzzese. È incredibile. Tutto ciò ha dell'incredibile.
giovedì 25 ottobre 2012
se questo è un uomo
Voi che
vivete sicuri
Nelle vostre
tiepide case,
Voi che
trovate tornando a sera
Il cibo
caldo e visi amici:
Considerate
se questo è un uomo
Che lavora
nel fango
Che non
conosce pace
Che lotta
per mezzo pane
Che muore
per un sì o per un no.
Considerate
se questa è una donna,
Senza
capelli e senza nome
Senza più
forza di ricordare
Vuoti gli
occhi e freddo il grembo
Come una
rana d'inverno.
Meditate che
questo è stato:
Vi comando
queste parole.
Scopitele
nel vostro cuore
Stando in
casa andando per via, coricandovi alzandovi;
Ripetetele
ai vostri figli.
O vi si
sfaccia la casa,
La malattia
vi impedisca,
I vostri
nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Primo Levi
martedì 23 ottobre 2012
verso casa - day 9
Poi il
ritorno sono chilometri di strada. Un nastro che corre in mezzo al Paese, da
ovest a est, prendendo la via più veloce per la capitale. Una sosta in una
piazzola attrezzata nel mezzo del nulla, circondata dal bosco. La pioggia e il
sole. Distese di campi e animali a brucare, contee bucate senza conoscerne
neppure il nome.
La notte è
Dublino, nuovamente. Torniamo a bazzicare per Temple Bar e i suoi locali
affollati. Ci rifugiamo in un posticcino appartato, una stanza con qualche
tavolo, in stile francese. Mangiamo in silenzio, sfiniti.
Poi l'aeroporto.
La manciata di ore dormite sui sedili della macchina e poi via, verso casa.
cliffs parte seconda - day 9
È quasi
senza pensare che dirigiamo, poi, nuovamente verso le Cliffs. Dal litorale di Doolin,
infatti, parte uno dei sentieri che permettono di percorrere tutte le Cliffs of
Moher da nord-est a sud-ovest, fino al punto più alto e ancora oltre.
Poco più
avanti il sentiero che costeggia il profilo della scogliera è sbarrato da un
cartello: "Clare Co. Council. Caution. Very dangerous cliffs ahead". Scavalchiamo
il cancello e ritroviamo il nostro sentiero. Il manto erboso comincia ad
alzarsi notevolmente, piano piano, a salire mentre sulla destra le rocce
scendono verticali fino al livello dell'oceano. Passiamo da un campo di capre,
scavalchiamo qualche altro steccato, attraversiamo ponticelli improvvisati che
permettono di passare da uno sperone all'altro, camminando su decine di metri
di vuoto.
A pochi
metri dalla costa alcune foche stanno cercando di procacciarsi il cibo
quotidiano, nuotando senza fretta.
A volte il
sentiero taglia dritto per i campi di foraggio e la scogliera sparisce,
ingoiata dalle rotonde forme di madre terra. Altre si fa ardito e sfiora il
precipizio, quella parete di roccia stratificata e scura che si inabissa nelle
acque.
Non si
capisce bene se sia ancora il nostro stanco stato di catatonia a farci
proseguire, o la consapevolezza che questo mastodontico monumento naturale è il
nostro addio a questa terra. In ogni caso continuiamo a camminare per oltre
un'ora, risalendo il pendìo, godendoci il sole e la pioggia irlandesi per
un'ultima volta, rimandando senza rimorsi la partenza ora dopo ora.
In fondo,
tornare a Galway è già quasi un tornare a casa. Perchè Galway è città, perchè è
già conosciuta, perchè è una tappa breve. Perchè l'Irlanda è il non civile, il
non-antropizzato.
la stessa
Ci vedremo,
in un'altra terra con un'altra lingua. Tu sarai la stessa, ma con un altro
nome, un'altra storia, un altro sguardo. Eppure io avrò ancora tutti gli
oggetti che mi hai lasciato in tutti questi anni, quando eri tu senza saperlo.
Quel portachiavi
a forma di tartaruga, imbarazzante per uno della mia età. Quell'anello, così
tanto più grande del mio dito. Le scarpe che comprammo insieme, che dovevano
cedere col tempo, e che invece continuano a martoriarmi i piedi. I boxer,
quelli rossi da pugile, che comprai perchè ti piacevano e che quindi, in fondo,
sono tuoi. Il cactus che era piccolo piccolo, e che ora scoppia di salute. Le scarpe
da venti euro che mi facesti comprare, che vissero senza di me, che viaggiarono
la penisola ispanica senza il proprio padrone, passando di mano in mano, di
lingua in lingua, finchè tornarono a me, anni dopo, in un'altra città di un
altro Paese. Il pupazzo di carta che mi costruisti per esorcizzare la scimmia
che aveva il sopravvento su di me e che è ancora appeso alla parete di camera
mia. La cintura che mi desti per evitare che perdessi i pantaloni per le strade
di Madrid. Lo scampolo di tessuto di quel blu elettrico inguardabile, che
conservo solo perchè tu ci cucisti sopra un gigantesco bottone. Il braccialetto
di cuoio da quattro soldi, quello con i buchi, che ci legammo al polso
nell'ascensore di Barcellona, prima che questa crisi venisse a rubarci i nostri
sogni di gloria. La collana che mi portasti dal Brasile, al ritorno da casa. I
calzetti con l'antiscivolo, orribili. E tutti quegli oggetti intangibili che
sono i ricordi.
Li avrò
tutti con me. E forse, consegnandoteli, sarò finalmente libero.
sabato 20 ottobre 2012
doolin - day 9
Mi alzo
abbastanza presto, tutto sommato. In camera sono rimasti solo un paio di
ragazzi. Vado verso la cucina che pullula di gente più o meno sveglia che si
prepara la colazione. Io vago un po' in tondo, per orientarmi. La stanza è larga quasi quattro metri con il piano della cucina su tre dei quattro
lati. Il lavello, ovviamente, sotto la finestra. Il piano è disseminato
ordinatamente di pan carrè, marmellate, miele, burro, succo, latte, cereali, bollitori,
tostapane, tazze, piatti, tutto gentilmente offerto dalla casa. Mi metto in
coda, silenzioso, e mi preparo le mie fette di toast e mi siedo ad uno dei due
tavoli che stanno al centro della stanza. La gente si divide, chi sui tavoli,
chi sul piano cucina, chi esce dalla portafinestra e fa colazione al
sole.
Mentre persevero
nel mio stato catatonico sento dall'altro tavolo parlare spagnolo. Ci sono due ragazze, capelli castani lunghi, che stanno guardando
su un portatile da dieci pollici gli autobus per andare verso Galway. Noi veniamo
da Galway dico, nel caso avessero bisogno di qualche informazione sugli
ostelli.
Le ragazze
hanno poco più di vent'anni. Finita la scuola hanno deciso di venire in Irlanda
per qualche anno. Cosa fanno? Baby-sitter. Stanno in famiglia, imparano un po'
di inglese e nel frattempo, appena possono, girano il Paese. Ironizzo sul solito
vero clichè degli italiani e spagnoli come peggiori parlatori di inglese in
Europa. Mi confermano di aver avuto molti problemi, soprattutto all'inizio. Ma ora
sono tranquille, e dopo un anno tutto si è perfettamente sistemato.
Nel frattempo
Lompa passa dietro di me in silenzio. La faccia non è delle migliori e la
colazione a base di Maalox. Le sette pinte di ieri notte han lasciato il segno. Direi che stamattina non se ne parla di mettersi al volante. Scendiamo verso il paese, che
scopriamo essere semplicemente un addensarsi delle case che stanno sulla via
principale, prima del porto. Scendiamo a fare quattro passi lungo gli scogli,
lastre di pietra erose dall'acqua e dalla salsedine. Ci godiamo il tepore di
questo sole irlandese mentre di fronte a noi continuano a passare i traghetti
che fanno la spola tra Doolin e le Aran.
giovedì 18 ottobre 2012
guinness - day 8
Poi ridiscendiamo
verso Doolin. Ci sono tre ostelli sulla strada principale del paese. Il primo che incontriamo, il Rainbow
Hostel, non ha più posto, mentre poco più avanti, al Flanagan's, con un po' di insistenza riusciamo ad ottenere due posti in una stanza da dodici. Appoggiamo i nostri averi in camera e
ci dirigiamo subito verso la costa in cerca di cibo, visto che le cucine chiudono presto in questo Paese. Il primo locale che incontriamo è il Doolin Cafè,
un posticcino carino con gli interni in stile vagamente parigino, pochi tavoli
ed un'atmosfera rilassata. Ci guardiamo negli occhi, io e te, e ci
rammarichiamo, come tante altre volte, di non essere qui con una ragazza. In ogni
caso il locale è pieno e non ci serviranno prima delle dieci. La fame ci sta divorando e non ce la
possiamo fare ad aspettare tanto, quindi scendiamo ancora verso l'edificio successivo. Il McDermotts
Pub è assolutamente pieno di gente, murato, e la cucina è aperta ancora per poco. Ordiniamo al volo le consumazioni e
portiamo le nostre birre con noi, cercando posto in uno dei due tavoli in legno che si trovano all'esterno. Seduto ci sono due ragazzi grosso modo della nostra età. Domandiamo se possiamo sederci al loro
tavolo, visto che non c'è altro posto, e loro cordialmente ci ospitano. A questo
punto fare amicizia è facile. Colin è irlandese di origine, ma ha studiato
all'università a Nottingham, dove ha incontrato Ed, gallese, e son diventati
grandi amici. Colin poi si è spostato per lavoro a Sidney dove progetta valvole
per turbine e centrali, mentre Ed è rimasto a lavorare in università. Ora si
sono dati appuntamento, dopo anni, in Irlanda, e se la stanno girando allegramente passando da una città all'altra. Colin ricorda che quando era piccolo sulle Cliffs ci venivano e
non c'era nulla, non c'era il parcheggio, il centro visitatori, la piazza con i
parapetti. "Parcheggiavamo la macchina a pochi metri dal precipizio e si
stava lì, ad un soffio dal vuoto". Mentre mangiamo i due tracannano due pinte a testa (e chissà
quante ne hanno già scolate prima che arrivassimo) ed ordinano l'ultimo piatto
prima che la cucina chiuda definitivamente.
Davanti a noi, sedute all'altro tavolo, ci sono
sei donne irlandesi che ogni tanto danno da dire a Colin, il più affascinante
della compagnia. Tutte quante hanno abbondantemente superato il loro peso forma
diversi anni fa, forse per colpa dell'alcol che continuano ad ingerire, o delle
patate fritte, o della vita. E non perdono occasione per smentire la loro
femminilità ruttando come camionisti. Anche Colin sembra a metà tra
l'imbarazzato ed il divertito. In compenso Ed, occhi da Elijah Wood dietro gli
occhiali e capello corto, sfoggia un sorriso che non so bene se significhi allegria o ebbrezza. Io mi ricredo, e penso che sono contento di non essere qui
con una ragazza.
Finito di
mangiare proviamo ad entrare nel pub dove hanno appena cominciato a suonare. Tutti
si sono radunati intorno alla nicchia di legno di fianco alla porta dove si
sono piazzati i musicisti e non c'è un centimetro libero per passare, le sedie disposte
anarchicamente ovunque, fin sotto al microfono. Tra il pubblico ci sono diversi
stranieri, ma scopriamo con piacere che molti sono irlandesi. In ogni caso strano
gruppo, il gruppo. Quasi anziani e molto giovani si affiancano suonando
chitarre, banjo, tamburi. Sembrano suonare canzoni tradizionali, qualcuna su
richiesta del pubblico. Dopo poco riusciamo a conquistare un tavolo, e per di
più vicino al bagno. I bicchieri intanto continuano ad arrivare e venir
scolati, noi a offrire a loro e loro a noi, con la differenza che i due
trincano con velocità doppia rispetto a noi. Alla nostra quarta pinta Colin è
euforico, comincia a cantare a squarciagola le canzoni, mentre Ed non gli sta
dietro e se la ride. Poi si gira ghignando e ci dice: "Sapete a chi
somigliate voi due? A Mario e Luigi!", riferendosi a Mario Bros.
Ad un centro
punto un ragazzino, un teen-ager, si alza e va verso il microfono, chiedendo se
può cantare. Il gruppo, molto contento, lo fa sedere e si mettono d'accordo
sulla canzone. La chitarra attacca e l'auditorio va in visibilio (un pezzo che
tutti conoscono tranne noi). Il ragazzo, acne sulle guance e sguardo timoroso,
tira fuori una voce ruggente che non ti aspetti, e carica l'aria sostenuto dal
possente coro dei clienti del bar.
"Qual è
il vostro record di birre?" esordisce Colin ad un certo punto. Noi ci
guardiamo e rispondiamo umilmente, sapendo benissimo che verremo seppelliti
dalla sua risposta. E infatti così è. "Io il mio record l'ho stabilito
ieri" prosegue mentre Ed se la ghigna tirando fuori il cellulare e
mostrandoci una foto della sera prima. "Quattordici pinte in sette
ore". Impressionante. Non so come facciano. Nella mia mentre si forgia una
battuta che però non proferisco. Un bel Guinness. Ora capisco, in ogni caso,
perchè Colin che dice di avere ventisei anni fisicamente sembra che ne abbia
dieci in più.
Verso le due
usciamo dal locale mentre i nostri due amici rimangono a farsi qualche
bicchiere della staffa(!). Fuori la pioggia è nebulizzata, si ferma sugli
occhiali creando la nostra piccola discoteca personale. Io comincio a correre
nella notte cercando di smaltire l'alcol, corro in salita con tutto il fiato
che ho finchè sparisco, esco dal cono di luce dei lampioni e mi ritrovo
nell'oscurità completa.
Rientriamo in
ostello. Tu vai a dormire diretto, mentre io mi addormento per una buona
mezz'ora sulla tazza del cesso. Di stare disteso proprio non se ne parla. Poi,
quando ho preso abbastanza freddo e mi sento un po' meglio, mi avvio anch'io
verso la camera, ma era uno scherzo, ancora non ce la faccio. Allora mi siedo a
lato della porta, gambe lungo il corridoio, e mi metto a dormire lì. Un'ora
dopo sento dei passi. Mi sveglio e vedo i miei nuovi amici che stanno
rientrando nella camera di fianco alla nostra e mi guardano con aria
interrogativa. "It's all right, guys. Goodnight" dico sfoggiando un
sorriso di cartone. Loro entrano ed io mi riaddormento. Verso le quattro mi
alzo e vado a godermi il mio meritato sonno in cima al letto a castello.
mercoledì 17 ottobre 2012
cliffs of moher - day 8
Parcheggiamo
ed usciamo dalla macchina. Tira un vento forte, il cielo è grigio e minaccioso,
parente dei cieli di montagna capaci di tutto. Oltrepassiamo il varco di un
simbolico ingresso e ci avviamo lungo una passeggiata lastricata fino ad uno
spiazzo. A destra il sentiero si inerpica per una scala monumentale (pure
troppo) che raggiunge una piccola torre di vedetta. A sinistra diviene un
sentiero che presto termina in un piccolo belvedere. Ci avviciniamo al bordo e,
finalmente, le vedo in tutta la loro magnificenza. Le Cliffs of Moher. Le
Scogliere della Rovina. Una serpentina di otto chilometri di roccia che termina
a picco sull'oceano, verticale, in caduta libera per oltre duecento metri. Ma non
è tanto l'altezza ad impressionare. È la conformazione. Colossali masse di
roccia che si lanciano verso il nulla, verso l'oceano, in un tuffo muto e
congelato da millenni. Una costa fatta di promontori, di tentativi di assaltare
l'orizzonte. Pareti verticali dove le ere geologiche sono messe a nudo,
scoperte.
Ci si
presentano, le scogliere, in un'atmosfera apocalittica. Una tempesta che non
riesce ad esplodere imperversa tutto intorno, scaricandosi in acqua, poco
lontano. L'aria si fa strana, azzurrognola, poi sulfurea. Un sole ostinato
prova a sfondare la coltre di nubi, illuminando insperatamente porzioni di
scogliera che si stagliano sullo sfondo cupo.
Sul parapetto,
davanti a noi, un cartello recita: "Hai bisogno di parlare? Chiamaci.
Samaritane" riportando poi un numero di telefono. A quanto pare queste
zone sono famose per essere teatro di numerosi suicidi. Guardo giù. Non lasciano
molto scampo.
Il percorso
cammina sul bordo del precipizio, protetto da un parapetto. Presto la
passeggiata si conclude con una bassa barriera di lastre di pietra che segna la
fine del percorso ufficiale. Il tempo continua a peggiorare, la pioggia è, a
volte, battente. La gente sta tornando verso il parcheggio, camminando in senso
opposto al nostro. Noi ci guardiamo un secondo ed attraversiamo la barriera. Dall'altra
parte il sentiero è un percorso sterrato scavato nella terra che corre a mezzo
metro dal precipizio. Di protezioni neanche a parlarne. Rispolvero le mie
antiche vertigini e andiamo avanti.
Due ore dopo
stiamo ancora camminando senza sosta in direzione sud-ovest. Il cielo si è
ripulito, il vento si è placato, e le scogliere sono illuminate da una tenue
luce vespertina.
È curioso
come, anche in questo caso come a Santiago, la maestosità della natura mi trasmetta
quel senso di sacro e di trascendente che le chiese ormai non riescono più a
trasmettermi. Quasi che l'immobile indifferenza della natura esercitasse su di
me un senso di figliolanza. Come se la meta di un viaggio come questo, on the
road, non potesse che essere il tornare all'origine di tutto, ad un linguaggio
pre-logico e anticivile. È la natura, l'immensità di tutto questo che ho
davanti, ad essere cattedrale a se stessa.
corcomroe abbey - day 8
È vagando
per diverso tempo che, finalmente, la incontriamo. Al fondo di una strada
bianca senza uscita, fiancheggiata da alti alberi ricchi di foglie. Quello che
ci si para di fronte è la Corcomroe Abbey, un imponente complesso abbandonato costruito
completamente con la pietra calcarea tipica del Burren. Fondata alla fine del
XII secolo, l'abbazia conosciuta come "Santa Maria della Roccia
Fertile"divenne il monastero dei Cistercensi che vi rimasero dal 1249 al
1628. Quello che ora rimane è una maestosa chiesa, anche questa senza più il
tetto, a croce latina. La grande navata centrale è interrotta da una parete che introduce un secondo ingresso assiale, ma non riusciamo a
ricostruire esattamente se fosse un esonartece o se la costruzione venne ampliata mantenendo la
vecchia facciata. Ai lati i resti di due navate minori, coperte ad un livello
più basso, danno corpo allo spazio centrale raccordandolo con il chiostro. Due volte
a crociera, costolonate e intrecciate, coprono l'ampia abside che termina con
un'alta trifora a sesto acuto ed una piccola monofora in chiave. Un semplice
altare in pietra si erge al di sopra di una pavimentazione ormai inesistente,
ridotta ad un acciottolato.
Tutto il
complesso, non solo l'antico chiostro (di cui rimane pressochè nulla), ma
perfino dentro la chiesa, di fronte all'ingresso, nelle cappelle laterali,
nella nave centrale e nelle nicchie absidiali, è invaso da lapidi e tombe. Quello
che era un luogo di preghiera e cultura è ora divenuto un piccolo cimitero a
cielo aperto.
È strano
addentrarsi in questi luoghi. Passeggiare sulle teste di uomini morti secoli
fa. Rubare il silenzio e la sacralità con le nostre parole e le nostre
fotografie. Mi sento un po' un corvo, saltellando trai vari muretti diroccati. E,
sotto un cielo plumbeo, lasciamo questo luogo di pace.
domenica 14 ottobre 2012
riposo - day 8
È proprio
questo il bello di perdersi. Sono sempre stato d'accordo coi situazionisti, a
riguardo.
Vagando per
il Burren decidiamo di fermarci in un luogo a caso per pranzo. Seguiamo una
direzione non ben precisata finchè scorgiamo un piccolo cartello. Ne seguiamo
le indicazioni che ci portano su una stradina bianca che muore in un cancello
chiuso. Parcheggiamo, attraversiamo un paio di muretti a secco, fiancheggiamo
campi dove le mucche ci osservano come se fossimo strani esseri, e ci
ritroviamo, finalmente, in un piccolo appezzamento recintato occupato quasi
completamente da un antico edificio. Come tante altre chiese dell'epoca, di
questa son rimaste in piedi solo le massicce pareti perimetrali, mentre il
tetto è scomparso lasciando l'interno a cielo aperto. I muri sono composti da pietre
sbozzate di grandi dimensioni. Non posso fare a meno di notare alcune singolarità
che balzano all'occhio, come le eleganti mensole che commentano il punto in cui
il tetto si congiunge con l'angolo dell'edificio. O la presenza a lato dell'ingresso,
grossolanamente chiuso con alcuni massi, di due facce che emergono dal profilo
della costruzione. Una, poco al di sotto di una dalle mensole, ritrae una testa
umana con gli occhi chiusi ed i lineamenti rilassati. L'altra è un cane, o un
lupo, a guardia di uno degli stipiti.
Ci sediamo
su di una roccia che affiora dall'erba e cominciamo a mangiare. Intorno non si
sente un rumore, solo il vento che spazza i campi e ci passa sopra la testa. Man
mano che ci guardiamo intorno scopriamo che quest'area veniva utilizzata per le
sepolture ed ancora ne rimangono i segni. Defilata, all'ombra di un
bell'albero, sta una curiosa tomba, molto simile ad una tenda: due fogli
sottili di pietra appoggiati l'uno all'altro e tamponati da due lastre
triangolari. Un luogo per il riposo, ora come allora.
burren - day 8
Attraversa l'Oceano,
sul fondale, e risale poi la costa creando questa landa che ci circonda. È il
Burren (Grande Roccia), l'immenso tavolato calcareo unico al mondo che occupa
buona parte del Claire. Quello che sulle Isole Aran era una prova generale interrotta
bruscamente dalle acque, qui diviene un paesaggio esteso oltre duecento
chilometri quadrati. Le colline che si alzano dal profilo della costa sono
composte da una superficie calcarea fessurata dall'acqua in cretti organici
all'interno dei quali si trova spesso una rigogliosa fauna. Non è raro
incontrarsi perfino piante di origine mediterranea o alpina. Ovviamente una
stranezza naturale del genere non è una scoperta recente. Nell'area si trovano
diversi siti risalenti alle civiltà del neolitico, come il Dolmen di
Poulnabrone, costituito da due sottili lastre di pietra che ne sostengono una,
posta in orizzontale, lunga quasi quattro metri. Qui, all'incirca tremila anni
prima di Cristo, vennero sepolti una ventina tra adulti e bambini.
È impossibile
non immaginarsi lo stupore che un luogo del genere doveva suscitare su
popolazioni tanto primitive. Popolazioni per le quali l'esistenza era ancora
una lotta per sopravvivere alla natura. E pensare che questi uomini abbiano
dedicato le loro energie alla costruzione di un luogo sacro di tale eleganza primordiale, qualunque fosse la
divinità che sentivano di doversi ingraziare, è grandioso. Civiltà
che ancora utilizzavano asce di pietra levigata, come furono rinvenute trai
sepolti, trovarono il modo di erigere una costruzione che desta stupore
tutt'ora. Un proto-spazio, un tempio alla sacralità che il luogo stesso
suscita. Come non pensare che qui, su queste colline calcaree leopardate di
verde, vivesse un qualche essere superiore? Come non immaginare che immensi
fogli di pietra sospesi da terra fossero il segno indiscutibile della potenza
della natura che permetteva all'uomo un tale prodigio?
frontiere
Francia,
Perù, Messico. Spagna, Marocco, Germania, Moldavia, Austria, Giappone, Portogallo.
Guyana Francese. Australia, Rèunion. Danimarca, Argentina, Brasile, Venezuela,
Russia, Turchia. Stati Uniti, Canada, Sud Africa, Grecia. Uruguay, Romania, Senegal.
Iran, Albania, Libano. Polonia, Bulgaria, Inghilterra, Irlanda, Repubblica Ceca.
Cina?
sabato 13 ottobre 2012
senso di colpa
Scegliere di
darsi la colpa. Un'altra variante che non passa mai di moda, soprattutto fra
coloro che si identificano con un'idea di sè di persone buone e sensibili.
La perfezione
è impossibile, il futuro imprevedibile, le conseguenze delle nostre decisioni
imperscrutabili; per cui, anche se siamo di indole dedita e onesta, non è
verosimile riuscire a non danneggiare mai nessuno. Possiamo così a piene mani
darci la colpa, sentirci responsabili della delusione che ci pare di
intravedere in x, della mancanza di motivazione dei dipendenti, della pressione
alta del capo, della morte del canarino, delle ansie della figlia, della
depressione della suocera, oltre che della nostra.
Ludovica Scarpa - La capra canta
galway - day 7
Galway è una
gran bella città. Entriamo nell'ostello che si trova sul corso, Quay Street, e
come al solito la fortuna ci assiste. La receptionist abbassa la cornetta e
dice che due persone se ne sono appena andate e che quindi possiamo prendere il
loro posto. Perfetto. Saliamo al terzo piano dove si trova la nostra stanza
che a stento contiene i due letti a castello. In compenso la finestra è un
portento. Il muro è così spesso ed il bancale così profondo, che diventa un piccolo spazio intimo in cui sedersi e guardare, attraverso i
doppi vetri, la gente in strada. Ci prepariamo e scendiamo.
Lungo tutta
Quay Street e High Street ci sono decine di musicisti di strada con i più
differenti strumenti. Una giapponese tutta intenta a suonare l'arpa, xilofonisti acrobati, chitarre e cajònes de flamenco, banjos. Dai
pub, invece, esce musica rock.
Ci fermiamo
a mangiare in un piccolo localino in posizione defilata e ci restiamo finchè
non chiude. Un salto in un paio dei grandi pub e poi verso il fiume dove i
ragazzi sono riuniti a gruppi. Il lungo fiume qui è sorprendentemente vivo. Non
ci sono argini, l'acqua scorre semplicemente un metro e mezzo al di sotto della
pavimentazione e sul bordo stanno seduti a bere decine di ragazzi. Mi sorprende
positivamente il fatto che, nonostante le zone siano potenzialmente pericolose,
ci siano così tante ragazze sole, fuori dal gruppo, a coppie.
Oltrepassata
una delle porte che ancora rimangono dell'antica fortificazione, ci troviamo a
passare di fianco ad un locale interessante, ricavato nell'edificio che sorge
lungo la banchina. Purtroppo appena tentiamo di entrare ci dicono che è chiuso
e rimaniamo con la voglia di passarci qualche ora.
La mattina
scendiamo in strada per l'ultima ricognizione di rito (Galway, come tutte le
città irlandesi, offre il meglio di sè nella vita notturna) e prima di riprendere la macchina facciamo in tempo ad ascoltare un
vecchino che, nessuno sa come, ha portato un pianoforte verticale di un bel color castagno all'incrocio tra le strade del centro e lì, alle dieci di
una domenica mattina, delizia i passanti con brani di musica classica.
bodhràn - day 4
Ci aggiriamo
un po' per il centro di Clifden, il che significa fare avanti e indietro per Market
Street e Main Street. Tutti i luoghi di interesse del paese (dal supermercato
alle poste, dalla chiesa ai numerosissimi pub, dall'albergo all'internet point)
si trovano su queste due strade che si incontrano con un curioso angolo ottuso
in un obelisco metallico di dubbio gusto. In ogni locale in cui entriamo incontriamo
qualcuno che sta suonando dal vivo per i numerosissimi turisti che in questi
giorni affollano la cittadina. In questi giorni, infatti, è in corso la mostra
mercato dei Pony del Connemara, evento tanto rinomato da portare su queste
coste gente da tutta l'Irlanda e saturare la capienza ricettiva del paese. Ci infiliamo
in uno dei pochi pub in cui la cucina è ancora aperta e veniamo fatti sedere in
un piccolo tavolino di fianco al palco, una semplice pedana in legno appoggiata
alla porta in legno che chiude il vecchio accesso al pub. Sopra vi trovano posto un cajòn de flamenco,
un bodhràn (tamburo tipico in queste zone), una tastiera ed alcune pedaline. Alla
porta sono appesi un banjo e due chitarre, una classica ed una acustica.
Dopo poco un
pingue signore dai capelli bianchi, vestito completamente in nero, fa la sua
comparsa sul piccolo scenario e comincia subito ad interagire con il pubblico. Dà
da dire un po' a tutti, chiedendo da dove veniamo, e riserva ad ognuno una battuta.
C'è una famiglia di statunitensi che tentano di dimostrarsi disinvolti nella loro rigidità di cera. Una coppia
di londinesi attempati. Una famiglia di Monaco che sta cercando di indovinare,
dal nostro modo di parlare, se siamo spagnoli o italiani. Dall'altra parte del
locale scorgiamo qualche gruppo di ragazzi sicuramente italiani e qualche
francese.
Sul palco
salgono poi due ragazzi, uno imbraccia la chitarra e l'altro il banjo. L'uomo
in nero, che mi ricorda tanto un Johnny Cash nostrano, è evidentemente lo
spirito goliardico del trio e continua a far ridere i clienti del pub con una
serie di battute che, ne sono certo, si ripetono più o meno ogni sera. Come il
suo cavallo di battaglia che apre la strada alla musica: "Riempite i
calici e brindiamo. E ricordate: più bevete, meglio suoniamo ".
D'accordo. Lompa
(un purista, si sa) sostiene che sia tutta musica per turisti, uno spettacolino
che ci propina esattamente quello che vogliamo sentire. Una sorta di tipicità
forzata. Un pizza-pasta-mandolino per stranieri. Eppure anche così hanno il
loro fascino. Canzoni che hanno addosso un misto di allegria, di voglia di
vivere e nello stesso tempo di malinconia. Mentre il tamburo tesse il ritmo della
storia che la voce sta cantando, le melodie raspate sulla chitarra sono
decorate da un banjo che corre velocissimo da una nota all'altra. Il nostro
amico suona a volte il bodhràn, altre il cajòn de flamenco, altre ancora due
cucchiai, messi schiera contro schiena e fatti schioccare sulle dita con grande
abilità. Capisco perchè gli irlandesi si siano fatti la fama di essere i
musicisti più rapidi al mondo.
Poi c'è un
momento di pausa. I musicisti vanno a fumare fuori, a sgranchirsi. La gente si
rilassa e ritorna a parlare ad alta voce. I vassoi di Guinness continuano a
viaggiare dal bancone ai tavoli. Il ragazzo che suona il banjo scompare a
chiacchierare con il nostro Johnny, mentre il chitarrista, un ragazzo che avrà
all'incirca 25 anni, si ferma a chiacchierare con gli statunitensi, che
sbandierano contenti il loro album appena comprato. Dice di essere stato anche
lui per un po' di tempo negli States, a causa di una ragazza. Per un attimo il tono
si intristisce ma poi, prontamente, risfoggia il sorriso amabile di sempre e
con una battuta rimette tutti di buon umore.
Un attimo da
nulla. Eppure mi basta per farmi pensare a quanto siamo abituati ad usare le
nostre maschere, lavorative o meno. A come essere buffoni aiuti a non far
entrare nessuno là dove la vita più brucia.
venerdì 12 ottobre 2012
dùn dubhchathair - day 7
Lo chiamano
Black Fort, il forte nero, ma non ci aspettiamo né palizzate né indiani.
Scendiamo a
costeggiare il porto e poi proseguiamo sulla strada che aggira la piccola baia
e punta verso sud-est. Intravediamo la piccola pista di atterraggio, in
lontananza, poi abbandoniamo il tracciato principale per addentrarci verso
sud-ovest. Le poche case si fanno rade, i muretti a secco sempre più bassi, la
strada asfaltata diventa una successione di pietre annegate in un sentiero. Decidiamo
di abbandonare le biciclette dentro un recinto e proseguiamo a piedi, risalendo
sotto il sole cocente la collina. Che poi è strano chiamarla collina, visto che
lo strato di terra che ricopre la pietra è sottilissimo, quasi una pelle dalla peluria verde ed effimera. Arrivati in cima, il sentiero si allarga
e prosegue dritto dritto fino all'orizzonte. Ci guardiamo intorno e non vediamo
nulla che somigli a un forte, solo questo tracciato bordato da due ordinate
file di pietre che distinguono il nulla dal nulla. Procediamo e l'erba scompare
sempre più, sopravvivendo solo nelle pieghe della pietra.
L'altopiano,
infatti, è una gigantesca e grigia placca calcarea scavata dall'acqua piovana
in piccole e sinuose gole profonde
qualche decina di centimetri. È proprio in queste gole che la terra si annida
generando episodi di verde. Il risultato è un paesaggio arido, un deserto di
pietra leopardato dall'erba.
Poi l'altopiano
finisce, e lo fa senza preavvisi. Ancora una volta la roccia viene tagliata di
netto precipitando per decine di metri fino all'oceano. Ed in questo tuffo
statico rivela tutto il suo passato, scoprendo le numerose fasce che la
compongono, tutte orizzontali. Le guardo e mi vien da pensare che non sono
altro che rughe, segni lasciati dal tempo sulla superficie di questa terra
intrisa di miti e di mistero. E, come le rughe di una grande saggia, esercitano su di me un grande fascino.
Finalmente vediamo
verso l'orizzonte una conformazione simile a quella del Dùn Aonghasa e ci incamminiamo procedendo paralleli alla scogliera. Ci ritroviamo così ad attraversare una
miriade di muretti che, ancora una volta, dividono il nulla dal nulla. Tutti paralleli
tra loro e perpendicolari alla costa, sono costituiti da pietre disposte,
questa volta, in verticale, le une appoggiate alle altre. Una costruzione che
mi ricorda il Muro di Frisia. Come per i campi del paese, le pietre sono state
tolte dalla terra per dissodarla ed al tempo stesso riutilizzate per le
recinzioni. Qui, però, non c'era nulla da dissodare: i muretti a secco restano
a fare la guardia ad un'infinità di piani rocciosi, di scalinate naturali, di
canaloni calcarei che occupano tutto l'orizzonte. Non mi sorprende che, con un
paesaggio del genere, proliferassero le leggende. Che nascessero storie che ora
chiameremmo fantasy. Certe zone del Signore degli Anelli potrebbero benissimo
essere ambientate qui. Già ce li vedo, orchi e nani a combattere su questa
landa pietrosa.
Finalmente arriviamo.
Il forte è, ancora una volta, una cinta muraria a semicerchio di pietre
sbozzate. L'ingresso al Dùn Dubhchathair è costituito da una strettoia che
costringe a passare rasente tra mura e precipizio. Protetto rispetto alla terra,
si apre poi verso l'oceano lasciando spaziare lo sguardo all'infinito. Al riparo
di questa "fortificazione" sono rimaste solo le pareti basali di
quelle che dovevano essere le abitazioni: stanze di forme organiche le une
addossate alle altre, tutte rivolte verso lo spazio aperto. Ci accasciamo
dentro una di queste, cercando ristoro per la nostra pelle ormai quasi bruciata nella poca ombra che ancora garantiscono le vecchie case.
sabato 6 ottobre 2012
educazione moderna
È sabato mattina ed il cervello è ancora vuoto. Sull'autobus ritrovo la solita umanità di terza classe, quella per cui la scelta dei mezzi pubblici non ha nulla a che vedere con la sensibilità ecologica ma con una necessità economica. Ragazze cinesi in tiro dalle nove di mattina, una signora russa infagottata nel suo maglione blu elettrico anni '80, pakistani, bengalesi con il loro carico di buste, ucraini in jeans e maglietta. E poi, ovviamente, gli anziani.
Mentre
sono lì, con ronzìo del cervello in accensione, sale il tipico
anziano che ha voglia di parlare. Appena imboccate le porte si
avvicina all'autista ed esordisce (continuando un suo immaginario
dialogo) con: “Nessuno paga il biglietto all'Atc, ma poi tutti si
lamentano”, buttando lì un barlume di lucidità inaspettata. Si
siede e comincia a rivolgersi un po' a tutti, indistintamente, guardando in direzione della gente seduta
sull'altro lato. “Io prima andavo in bicicletta ma poi mi hanno
messo una protesi, ci hanno messo un anno a darmi i soldi perchè
sono vecchio. Ci andavo dappertutto, ma ora mia
figlia mi ha fatto l'abbonamento mi ha dato un telefonino, perchè
dice che sai quando esci ma non sai quando torni, con tutta sta gente
che corre, che beve, tutti di fretta, dove andranno poi.Quando ero
giovane io si andava con le macchine a pedali e c'erano molti meno
incidenti, guardi se questo dev'essere il progresso. E per fortuna
che ho trovato posto a sedere, l'altra volta c'era un ragazzo proprio lì,
mi ha guardato e non si è mosso, io non gli ho detto niente, sa, era
di quelli con l'anello al naso, come le mucche di mia sorella, e non
si sa mai, meglio non dare da dire, mi dica lei se questa è
educazione, guardi, io ho solo la quinta elementare ma certe cose le
ho sempre rispettate e ora invece questa è l'educazione moderna...”
e continuando a parlare inforca nuovamente le porte e scende.
giovedì 4 ottobre 2012
dún aengus - day 7
Il sentiero
si inerpica. Più che un sentiero è un tracciato segnato da muretti a secco che
ci portano a salire il pendio attraversando un deserto di pietra. Qua e là solo
qualche ciuffo d’erba e due solitarie vacche. Attraversiamo quello che viene
chiamato “cavallo di Frisia”: un’ampia area che circonda la prima cinta muraria
costituita da pietre infilate nel terreno con la punta rivolta verso chi si
avvicina al forte. Questo stratagemma impedisce a chi volesse attaccarlo di
avvicinarsi a cavallo e gli impone di procedere unicamente a piedi. Geniale,
assolutamente geniale se penso che è stato ideato da popolazioni che risalgono a prima del primo
millennio avanti Cristo. Attraversiamo la prima cerchia muraria, un accatastamento
di pietre a secco sbozzate spesso, nella parte più ampia, fino a quattro metri.
Il forte chiamato Dún Aonghasa (Dún Aengus
in inglese) è costituito da quattro cinta murarie concentriche di muri a secco
che racchiudono uno spazio centrale sacro. Costruito a ridosso della grande
scogliera, il sistema difensivo presenta una forma a D che termina direttamente
sul precipizio: un centinaio di metri di caduta libera verso l’oceano. Nella cerchia
più interna si trova ora semplicemente una grande pietra rettangolare. Una enorme
piattaforma naturale, piana, quasi perfettamente rettangolare, che termina improvvisamente
nel punto più alto della scogliera, racchiusa da quattro cinta murarie
concentriche. E, dove il muro non rende cieco lo sguardo, l’oceano a perdita d’occhio,
e la costa irlandese per centinaia di chilometri.
Non mi
stupisce che qui i druidi tenessero i loro rituali stagionali, che qui
avvenissero probabilmente sacrifici, e che qui menti suggestionabili e semplici
si facessero invasare dalla potenza incontrastata della natura. Noi, incapaci
di reale stupore a causa della nostra conoscenza, attirati dai depliant più che
dal luogo, resi non impressionabili da fotocamere estremamente sensibili, noi,
popolo di consumatori di cultura take-away, restiamo in silenzio di fronte a
tanta semplice meraviglia.
E, sempre
più, mi si conferma un’intima teoria. Che ciò che realmente vale, ciò che
realmente impressiona (spazialmente, umanamente e culturalmente) non trova
spazio in una fotocamera.
aran - day 7
Scorriamo di
fianco alla costa in sella alle nostre bici fino ad un punto in cui la costa si
fa più dolce, e le placche di roccia formano delle terrazze nell’acqua. Un piccolo
casottino bianco segna il punto di avvistamento delle foche. Risaliamo la strada
fino ad una stretta spiaggia bianca, una delle poche zone sabbiose dell’isola. Qui
si trova un crocicchio di strade che portano in tutte le direzioni. Di fatto l’isola
è percorsa da un’unica strada, da sud-est a nord-ovest, sulla quale si trovano
tutte le case. Solo nella parte centrale, più ampia, questa spina dorsale si
divide in due, con una strada sul crinale ed una lungo la costa. A sud di
questa strada l’isola si trasforma in un deserto di pietra, una successione di
lastre senza vegetazione che terminano bruscamente nell’oceano con spettacolari
scogliere.
Superiamo la
spiaggia e ricominciamo a salire. La strada volta a sinistra, a sud. È la via
che conduce a Dùn Aonghasa. Proprio nell’incrocio si trovano due edifici dall’aria
vagamente mediterranea. Bassi villini di bianco calce e gli infissi colorati di
azzurro o giallo. Sulla facciata del più caratteristico dei due, sotto al tetto
in paglia evidentemente appena rifatto, spiccano rigogliose piante in fiore. La
casa è un bar e ne approfittiamo per una seconda colazione a base di tè e dolci
tipici. Ci sediamo di fuori a goderci questo magnifico sole che è venuto a
salutarci. Osservo l’altro edificio. Nonostante l’apparenza risulta essere un
edificio turistico, dove vendono souvenir dell’isola. Mentre mi godo i fiori e
la paglia due bambini ci scorrazzano intorno. Il piccolo, dalla carnagione ed i
capelli innegabilmente irlandesi, continua a girare trai tavoli con una
confidenza che rivela la sua familiarità con il luogo. La bimba, invece, ha la
carnagione più scura, i capelli lunghi fin sotto la spalla liscissimi e di un
nero corvino. Il taglio degli occhi tradisce origini vagamente orientali. Si mettono
infine a giocare sul tavolo di fianco al nostro. Provo a prestare attenzione a
quello che dicono, ma non capisco. Finchè arriva la mamma, con una monovolume
con altri due bimbi a bordo, a prenderli. Si intrattiene un po’ in chiacchiere
con la padrona del bar che nel frattempo, con ancora il grembiule, sta
innaffiando i fiori. E così capiamo, non capendo nulla, che la lingua che
sentiamo è il gaelico e che, a quanto pare, la famiglia è una delle poche che
effettivamente vivono sull’isola.
martedì 2 ottobre 2012
apnee
Lo ricordo
perfettamente, senza fatica né oggettività. Lo ricordo perfettamente come si
ricordano gli eventi del passato, come bolle di emozioni e profumi.
Ero nel
bagno piccolo, quello disotto. Ci facevamo la doccia, in quel bagno. Pensili celesti
e decorazioni floreali sulle piastrelle alle pareti. Una luce giallastra dall'alto. Ricordo come mi impegnassi per stare da solo sotto il getto dell’acqua e
tentare (non che ci riuscissi benissimo) di insaponarmi un po’, qua e là. Mentre
ero tutto indaffarato a spargere la schiuma, il babbo (allora un gigante che
supervisionava il tutto) mi disse: “Adesso, mentre sei sotto la doccia, prova a
tenere gli occhi aperti. E a respirare”. Infatti quando mi infilavo sotto il
getto dell’acqua chiudevo gli occhi e restavo in apnea e per tornare a
riaprirli e a respirare dovevo spostarmi dove non mi arrivasse l’acqua. Così le
mie docce erano un continuo saltare dentro e fuori dal fiotto.
Rimasi perplesso.
Già mi costava tanto insaponarmi. Ora dovevo aggiungere questa nuova sfida.
Ricordo che
mi misi sotto, occhi chiusi e bocca chiusa. Poi aprii piano le palpebre. L’acqua
cominciò ad entrare, ad affogare la vista. Ma in fondo non era poi così
fastidiosa. E allora schiusi la bocca e respirai. Ed il respiro, da sincopato e
timoroso, divenne sempre più naturale.
Lo ricordo
distintamente, con tutti i colori e le parole che forse non ha mai avuto. Ma
lo ricordo assolutamente reale. Ed il ricordo era del momento in cui,
improvvisamente, avevo conquistato qualcosa e mi ero sentito parte del mondo dei grandi.
di così - brunori sas
Che cos'è quest'ansia / Che mangia la pancia
Che cos'è che manca / Forse un conto in banca
E quello che voglio / È viverla meglio
Di così
Ho lasciato i sogni / Chiusi nell'armadio
Che dentro al cassetto / Non ci stanno più
Quello che voglio / È vivermi meglio
Quello che voglio / È vivermi meglio
È vivermi meglio / Di così
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