Lo chiamano
Black Fort, il forte nero, ma non ci aspettiamo né palizzate né indiani.
Scendiamo a
costeggiare il porto e poi proseguiamo sulla strada che aggira la piccola baia
e punta verso sud-est. Intravediamo la piccola pista di atterraggio, in
lontananza, poi abbandoniamo il tracciato principale per addentrarci verso
sud-ovest. Le poche case si fanno rade, i muretti a secco sempre più bassi, la
strada asfaltata diventa una successione di pietre annegate in un sentiero. Decidiamo
di abbandonare le biciclette dentro un recinto e proseguiamo a piedi, risalendo
sotto il sole cocente la collina. Che poi è strano chiamarla collina, visto che
lo strato di terra che ricopre la pietra è sottilissimo, quasi una pelle dalla peluria verde ed effimera. Arrivati in cima, il sentiero si allarga
e prosegue dritto dritto fino all'orizzonte. Ci guardiamo intorno e non vediamo
nulla che somigli a un forte, solo questo tracciato bordato da due ordinate
file di pietre che distinguono il nulla dal nulla. Procediamo e l'erba scompare
sempre più, sopravvivendo solo nelle pieghe della pietra.
L'altopiano,
infatti, è una gigantesca e grigia placca calcarea scavata dall'acqua piovana
in piccole e sinuose gole profonde
qualche decina di centimetri. È proprio in queste gole che la terra si annida
generando episodi di verde. Il risultato è un paesaggio arido, un deserto di
pietra leopardato dall'erba.
Poi l'altopiano
finisce, e lo fa senza preavvisi. Ancora una volta la roccia viene tagliata di
netto precipitando per decine di metri fino all'oceano. Ed in questo tuffo
statico rivela tutto il suo passato, scoprendo le numerose fasce che la
compongono, tutte orizzontali. Le guardo e mi vien da pensare che non sono
altro che rughe, segni lasciati dal tempo sulla superficie di questa terra
intrisa di miti e di mistero. E, come le rughe di una grande saggia, esercitano su di me un grande fascino.
Finalmente vediamo
verso l'orizzonte una conformazione simile a quella del Dùn Aonghasa e ci incamminiamo procedendo paralleli alla scogliera. Ci ritroviamo così ad attraversare una
miriade di muretti che, ancora una volta, dividono il nulla dal nulla. Tutti paralleli
tra loro e perpendicolari alla costa, sono costituiti da pietre disposte,
questa volta, in verticale, le une appoggiate alle altre. Una costruzione che
mi ricorda il Muro di Frisia. Come per i campi del paese, le pietre sono state
tolte dalla terra per dissodarla ed al tempo stesso riutilizzate per le
recinzioni. Qui, però, non c'era nulla da dissodare: i muretti a secco restano
a fare la guardia ad un'infinità di piani rocciosi, di scalinate naturali, di
canaloni calcarei che occupano tutto l'orizzonte. Non mi sorprende che, con un
paesaggio del genere, proliferassero le leggende. Che nascessero storie che ora
chiameremmo fantasy. Certe zone del Signore degli Anelli potrebbero benissimo
essere ambientate qui. Già ce li vedo, orchi e nani a combattere su questa
landa pietrosa.
Finalmente arriviamo.
Il forte è, ancora una volta, una cinta muraria a semicerchio di pietre
sbozzate. L'ingresso al Dùn Dubhchathair è costituito da una strettoia che
costringe a passare rasente tra mura e precipizio. Protetto rispetto alla terra,
si apre poi verso l'oceano lasciando spaziare lo sguardo all'infinito. Al riparo
di questa "fortificazione" sono rimaste solo le pareti basali di
quelle che dovevano essere le abitazioni: stanze di forme organiche le une
addossate alle altre, tutte rivolte verso lo spazio aperto. Ci accasciamo
dentro una di queste, cercando ristoro per la nostra pelle ormai quasi bruciata nella poca ombra che ancora garantiscono le vecchie case.
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