Scorriamo di
fianco alla costa in sella alle nostre bici fino ad un punto in cui la costa si
fa più dolce, e le placche di roccia formano delle terrazze nell’acqua. Un piccolo
casottino bianco segna il punto di avvistamento delle foche. Risaliamo la strada
fino ad una stretta spiaggia bianca, una delle poche zone sabbiose dell’isola. Qui
si trova un crocicchio di strade che portano in tutte le direzioni. Di fatto l’isola
è percorsa da un’unica strada, da sud-est a nord-ovest, sulla quale si trovano
tutte le case. Solo nella parte centrale, più ampia, questa spina dorsale si
divide in due, con una strada sul crinale ed una lungo la costa. A sud di
questa strada l’isola si trasforma in un deserto di pietra, una successione di
lastre senza vegetazione che terminano bruscamente nell’oceano con spettacolari
scogliere.
Superiamo la
spiaggia e ricominciamo a salire. La strada volta a sinistra, a sud. È la via
che conduce a Dùn Aonghasa. Proprio nell’incrocio si trovano due edifici dall’aria
vagamente mediterranea. Bassi villini di bianco calce e gli infissi colorati di
azzurro o giallo. Sulla facciata del più caratteristico dei due, sotto al tetto
in paglia evidentemente appena rifatto, spiccano rigogliose piante in fiore. La
casa è un bar e ne approfittiamo per una seconda colazione a base di tè e dolci
tipici. Ci sediamo di fuori a goderci questo magnifico sole che è venuto a
salutarci. Osservo l’altro edificio. Nonostante l’apparenza risulta essere un
edificio turistico, dove vendono souvenir dell’isola. Mentre mi godo i fiori e
la paglia due bambini ci scorrazzano intorno. Il piccolo, dalla carnagione ed i
capelli innegabilmente irlandesi, continua a girare trai tavoli con una
confidenza che rivela la sua familiarità con il luogo. La bimba, invece, ha la
carnagione più scura, i capelli lunghi fin sotto la spalla liscissimi e di un
nero corvino. Il taglio degli occhi tradisce origini vagamente orientali. Si mettono
infine a giocare sul tavolo di fianco al nostro. Provo a prestare attenzione a
quello che dicono, ma non capisco. Finchè arriva la mamma, con una monovolume
con altri due bimbi a bordo, a prenderli. Si intrattiene un po’ in chiacchiere
con la padrona del bar che nel frattempo, con ancora il grembiule, sta
innaffiando i fiori. E così capiamo, non capendo nulla, che la lingua che
sentiamo è il gaelico e che, a quanto pare, la famiglia è una delle poche che
effettivamente vivono sull’isola.
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