Il sentiero
si inerpica. Più che un sentiero è un tracciato segnato da muretti a secco che
ci portano a salire il pendio attraversando un deserto di pietra. Qua e là solo
qualche ciuffo d’erba e due solitarie vacche. Attraversiamo quello che viene
chiamato “cavallo di Frisia”: un’ampia area che circonda la prima cinta muraria
costituita da pietre infilate nel terreno con la punta rivolta verso chi si
avvicina al forte. Questo stratagemma impedisce a chi volesse attaccarlo di
avvicinarsi a cavallo e gli impone di procedere unicamente a piedi. Geniale,
assolutamente geniale se penso che è stato ideato da popolazioni che risalgono a prima del primo
millennio avanti Cristo. Attraversiamo la prima cerchia muraria, un accatastamento
di pietre a secco sbozzate spesso, nella parte più ampia, fino a quattro metri.
Il forte chiamato Dún Aonghasa (Dún Aengus
in inglese) è costituito da quattro cinta murarie concentriche di muri a secco
che racchiudono uno spazio centrale sacro. Costruito a ridosso della grande
scogliera, il sistema difensivo presenta una forma a D che termina direttamente
sul precipizio: un centinaio di metri di caduta libera verso l’oceano. Nella cerchia
più interna si trova ora semplicemente una grande pietra rettangolare. Una enorme
piattaforma naturale, piana, quasi perfettamente rettangolare, che termina improvvisamente
nel punto più alto della scogliera, racchiusa da quattro cinta murarie
concentriche. E, dove il muro non rende cieco lo sguardo, l’oceano a perdita d’occhio,
e la costa irlandese per centinaia di chilometri.
Non mi
stupisce che qui i druidi tenessero i loro rituali stagionali, che qui
avvenissero probabilmente sacrifici, e che qui menti suggestionabili e semplici
si facessero invasare dalla potenza incontrastata della natura. Noi, incapaci
di reale stupore a causa della nostra conoscenza, attirati dai depliant più che
dal luogo, resi non impressionabili da fotocamere estremamente sensibili, noi,
popolo di consumatori di cultura take-away, restiamo in silenzio di fronte a
tanta semplice meraviglia.
E, sempre
più, mi si conferma un’intima teoria. Che ciò che realmente vale, ciò che
realmente impressiona (spazialmente, umanamente e culturalmente) non trova
spazio in una fotocamera.
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