giovedì 4 ottobre 2012

dún aengus - day 7



Il sentiero si inerpica. Più che un sentiero è un tracciato segnato da muretti a secco che ci portano a salire il pendio attraversando un deserto di pietra. Qua e là solo qualche ciuffo d’erba e due solitarie vacche. Attraversiamo quello che viene chiamato “cavallo di Frisia”: un’ampia area che circonda la prima cinta muraria costituita da pietre infilate nel terreno con la punta rivolta verso chi si avvicina al forte. Questo stratagemma impedisce a chi volesse attaccarlo di avvicinarsi a cavallo e gli impone di procedere unicamente a piedi. Geniale, assolutamente geniale se penso che è stato ideato da popolazioni che risalgono a prima del primo millennio avanti Cristo. Attraversiamo la prima cerchia muraria, un accatastamento di pietre a secco sbozzate spesso, nella parte più ampia, fino a quattro metri. Il forte chiamato Dún Aonghasa (Dún Aengus in inglese) è costituito da quattro cinta murarie concentriche di muri a secco che racchiudono uno spazio centrale sacro. Costruito a ridosso della grande scogliera, il sistema difensivo presenta una forma a D che termina direttamente sul precipizio: un centinaio di metri di caduta libera verso l’oceano. Nella cerchia più interna si trova ora semplicemente una grande pietra rettangolare. Una enorme piattaforma naturale, piana, quasi perfettamente rettangolare, che termina improvvisamente nel punto più alto della scogliera, racchiusa da quattro cinta murarie concentriche. E, dove il muro non rende cieco lo sguardo, l’oceano a perdita d’occhio, e la costa irlandese per centinaia di chilometri.
Non mi stupisce che qui i druidi tenessero i loro rituali stagionali, che qui avvenissero probabilmente sacrifici, e che qui menti suggestionabili e semplici si facessero invasare dalla potenza incontrastata della natura. Noi, incapaci di reale stupore a causa della nostra conoscenza, attirati dai depliant più che dal luogo, resi non impressionabili da fotocamere estremamente sensibili, noi, popolo di consumatori di cultura take-away, restiamo in silenzio di fronte a tanta semplice meraviglia.
E, sempre più, mi si conferma un’intima teoria. Che ciò che realmente vale, ciò che realmente impressiona (spazialmente, umanamente e culturalmente) non trova spazio in una fotocamera.

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