Aya Sofia, Santa
Sofia. La chiesa dedicata alla Divina Saggezza. La chiesa distrutta e
ricostruita continuamente nell'arco dei secoli. Incendi, guerre, saccheggi,
profanazioni, terremoti. E risorgeva, come l'araba fenice, ogni volta. Ogni volta
rinasceva più grande, più ardita, più spettacolare. Chiesa, poi moschea ed
infine museo.
Come spesso
succede quando l'aspettativa è troppo alta o quando si conosce troppo qualcosa
prima di vederlo, l'incontro con Aya Sofia è meno meravigliante di quanto
avrebbe dovuto e potuto. Troppe foto, troppe piante, troppe righe di libri affollano
la mia mente; troppe persone, troppe parole, troppe impalcature ingombrano lo
spazio intorno a me.
Eppure si
impara anche questo viaggiando. Soprattutto se in compagnia. Le reazioni
spontanee che ci contraddistinguono da quando abbiamo memoria mutano e si
adeguano. Attimi di repentina insofferenza possono senza motivo sciogliersi. Ed
è, questa, una liberazione. Si torna liberi di guardare con occhi diversi cose
che mai ci hanno interessato, si finisce per osservare da nuove prospettive
situazioni conosciute.
I medaglioni
con le scritte in arabo che campeggiano immensi sui pennacchi; la grande cupola
traforata alla base come se non avesse peso; il mihrab, il minbar, la qibla; i
trafori nei capitelli delle colonne in pietra, le gelosie nei divisori in legno
e oro; i mosaici, tante volte visti sui libri, ed ora finalmente vibranti e
splendidi; i lampadari che ricordano le altre moschee della città. E, come
sempre, mi fermo ad immaginare come sarebbe dovuto essere all'epoca, per chi
non avesse avuto altro che i racconti a tracciarne l'immagine, la scoperta di
una tale grandiosità. Di tanta altezza, luce, spazio, oro, artigianato. Quanta suggestione
doveva suscitare.