Il mare è
piatto, liscio con scaglie di cobalto. La spiaggia, impolverata di incuria
umana, si infila stretta tra l'acqua e la pineta. E proprio sul confine stanno
alcune curiose proto-costruzioni. Un intrico di rami e legname, di cannicciati
e pallet, raccolti a cerchio. Alcove appollaiate di fronte al mare, nidi
costruiti da uccelli giganteschi, verrebbe da dire. E mentre il sole infiamma
le creste dei pini all'orizzonte e le zanzare si risvegliano per l'aperitivo
crepuscolare, l'immagine di primitivi esseri umani che si raccolgono intorno al
fuoco si fonde con quella dei nudisti di Caorle.
Scrocchia,
la neve, sotto i piedi. Crepita e cede la piccola patina di ghiaccio
alimentando il fiume delle nostre parole. La malga, ancora addormentata nel primo
sole primaverile. Le montagne, alte e vestite di bianco, a denudarsi poco alla
volta. La birra che scintilla d'oro nel sole basso, e mi ricorda gli
insegnamenti dei crucchi ed il loro saper oziare.
E poi il
treno in ritardo, l'ultima coincidenza persa, la prospettiva di quattro ore di
notte ad aspettare un convoglio che a Mestre non vuole arrivare. "Ciao. Sei
in città per caso?" e via, verso una casa quasi sconosciuta, che
onestamente non avrei più pensato di vedere, e la compagnia fortuita a riempire
le ore della notte. Il treno dei disperati, stipati in un corridoio, il vagone
che sa di fiato e di pelle, la polizia ferroviaria a seminare tensione. Un filo
che scorre nella notte, la percezione appannata delle ore che si susseguono
cullate dai binari. Ore di ritardo, noi fermi ad un passo dalla meta.
E,
finalmente, casa.
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