Risaliamo
una lunga scalinata che si addentra per il pendio. Incontriamo gruppi di
giovani e turisti che si muovono nella notte. Poi infiliamo una stradina ricca
di locali e negozi. Un bar al primo piano, aperto sulla strada, propone con una
grafica accogliente dolci tipici; una vetrina d'artigianato espone orecchini ed
anelli d'argento; un negozio poco distante esibisce filati e souvenir. La
strada fa una curva secca e ci appare, improvvisa, la torre di Galata. Illuminata
nella notte, spunta tra i tetti degli edifici quasi fosse di fuoco a ricordare
l'antica funzione di avvistamento degli incendi.
Ai suoi piedi
si trova la terrazza di un bar, riparata da una pergola e affacciata sul
panorama. Mentre indugiamo sul da farsi veniamo attirati da una voce che si muove nell'aria. Un gruppo di giovani turchi è seduto a un lato della piazzetta
ed intorno si è creato un semicerchio di persone rapite dal momento. Un cajon
de flamenco ed un violino accompagnano l'anima del gruppo che suona una
chitarra classica e canta. Ci sediamo anche noi a godere di questa melodia sorridente
e malinconica. La sera e tiepida e la fretta non abita più in noi.
La via che
risale la collina fino a piazza Tunel, nel cuore di Beyoglu, è illuminata dai
piccoli negozietti che vi si affacciano. Bar, negozi di vestiti, souvenir, strumenti
musicali, bigiotteria. Intorno a noi turisti e turchi si mischiano senza sosta
diretti in chissà quale locale. Un Staffordshire Bull Terrier con collare di borchie e Rayban
gialli specchiati scende con stile incredibile verso la torre.
Poi una
delle solite folgorazioni. Una scala che scompare nel solaio di un microscopico
bar stile Starbucks, ricompare al piano di sopra, per scomparire di nuovo. Ci guardiamo
ed entriamo. Sono le dieci di sera, nel locale non c'è nessuno a parte una giovane
barista. Saliamo fino al terzo piano e, da lì, una ripida scala in metallo ci
porta sulla copertura. Una decina di tavolini abitano la piccola terrazza quadrata
che si erge sopra gli altri edifici. La notte è limpida, gli aerei tracciano
scie di luce nel cielo.
E mentre
sorseggiamo il nostro tè non posso fare a meno di constatare, ancora una volta,
come l'amore per la periferia, per l'imperfetto, per il degradato siano
fortemente radicati in me. Guardo i balconi delle vie traverse, ingombri di
incuria e residui di vita come in tutte le altre parti del mondo, gli angoli
meno illuminati delle strade, i tetti sotto di noi, le cucine attraverso le
finestre aperte. Guardo tutto questo e mi vengono in mente le parole di Junichiro
Tanizaki ed il culto che il Giappone ha sempre nutrito per i segni che la vita
lascia sugli oggetti, il rispetto reverenziale per il tempo che passa. Una forma
di rispetto e di affetto che l'Occidente, in genere, non conosce.
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