martedì 9 aprile 2013

sultanahmet - day 0



Chiudo la porta scorrevole e partiamo. L'autista ha i capelli arruffati, leggermente brizzolati. Ha l'aria di chi non dorme tanto. Gli consegno un foglio su cui è scritto un indirizzo impronunciabile, sperando di evitare così incomprensioni. Lui comincia a leggerlo mentre si immette nella tangenziale cittadina, incurante degli altri taxi che ci sorpassano a destra e sinistra. Dopo un attimo di smarrimento prende il cellulare e comincia a chiamare. Suppongo sia il suo modo di avere un navigatore.
La strada che ci separa dal centro antico corre a quattro corsie tra gli edifici dell'estrema periferia ed un'ampia fascia verde che ci separa dalla costa. Qualche salotto, illuminato nella notte da grandi lampadari, si mostra nudo nella notte.
L'autista fa del suo meglio per guidare al peggio, sbandando, zigzagando tra le corsie, attirandosi il clacson di chi ci segue. Si fuma qualche semaforo rosso, quasi imbocca l'uscita sbagliata e a stento evita un bus che ci stava per attraversare la strada. Da allora penso di avere ancora le tue unghie piantate nella mia mano. Non mi stupisco che il lunotto anteriore sia decorato da due rose di schegge, due fori che si espandono circolarmente nel vetro temperato.
Il cartello recita Sultanahmet. Le strade si fanno piccole, si inerpicano per la collina. Il nostro autista si perde, fa inversione un paio di volte mentre è al telefono. Poi parcheggia in doppia fila e ci fa scendere. Un ragazzo ci viene incontro e ci chiede se stiamo cercando l'Indo Hotel. Entriamo in una reception che è il bancone di un bar, al primo piano. Dopo un rapido check-in veniamo affidati alle cure di un signore dal vestito a giacca che ci accompagna in macchina fino ad un altro edificio. Circondato da fatiscenti case in legno, dalle imposte segnate dall'incuria e le pareti scrostate dagli anni, sta il nostro "hotel". L'ingresso è un corridoio e a stento passiamo tra divano e parete. Appena prima delle scale, sulla destra, si trova la nostra camera: sarà tre metri per due, con il letto stretto tra le pareti e le finestre che affacciano sul marciapiede. Una finestra apre sul corridoio interno, una stufetta elettrica appoggiata su un microscopico tavolino è accesa per tentare di stemperare il freddo. Nel bagno non c'è acqua calda. Noncuranti ci sistemiamo e ci addormentiamo. La notte è segnata dal rumore di qualche macchina che sfreccia rombando a mezzo metro dalle nostre teste, dall'inquietante presenza del guardiano di notte, che dorme vestito sul divano, dall'altra parte della parete in cartongesso, un metro lontano dai nostri piedi.
E nel dormiveglia del primo mattino si insinua, come un profumo, il canto dei muezzin, che dagli altoparlanti chiamano i fedeli alla preghiera.
È questa l'accoglienza che volevo. Benvenuti a Istanbul.

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