Chiudo la
porta scorrevole e partiamo. L'autista ha i capelli arruffati, leggermente
brizzolati. Ha l'aria di chi non dorme tanto. Gli consegno un foglio su cui è
scritto un indirizzo impronunciabile, sperando di evitare così incomprensioni.
Lui comincia a leggerlo mentre si immette nella tangenziale cittadina,
incurante degli altri taxi che ci sorpassano a destra e sinistra. Dopo un
attimo di smarrimento prende il cellulare e comincia a chiamare. Suppongo sia
il suo modo di avere un navigatore.
La strada che
ci separa dal centro antico corre a quattro corsie tra gli edifici dell'estrema
periferia ed un'ampia fascia verde che ci separa dalla costa. Qualche salotto,
illuminato nella notte da grandi lampadari, si mostra nudo nella notte.
L'autista fa
del suo meglio per guidare al peggio, sbandando, zigzagando tra le corsie,
attirandosi il clacson di chi ci segue. Si fuma qualche semaforo rosso, quasi
imbocca l'uscita sbagliata e a stento evita un bus che ci stava per
attraversare la strada. Da allora penso di avere ancora le tue unghie piantate
nella mia mano. Non mi stupisco che il lunotto anteriore sia decorato da due
rose di schegge, due fori che si espandono circolarmente nel vetro temperato.
Il cartello
recita Sultanahmet. Le strade si fanno piccole, si inerpicano per la collina.
Il nostro autista si perde, fa inversione un paio di volte mentre è al
telefono. Poi parcheggia in doppia fila e ci fa scendere. Un ragazzo ci viene
incontro e ci chiede se stiamo cercando l'Indo Hotel. Entriamo in una reception
che è il bancone di un bar, al primo piano. Dopo un rapido check-in veniamo
affidati alle cure di un signore dal vestito a giacca che ci accompagna in
macchina fino ad un altro edificio. Circondato da fatiscenti case in legno,
dalle imposte segnate dall'incuria e le pareti scrostate dagli anni, sta il
nostro "hotel". L'ingresso è un corridoio e a stento passiamo tra
divano e parete. Appena prima delle scale, sulla destra, si trova la nostra
camera: sarà tre metri per due, con il letto stretto tra le pareti e le
finestre che affacciano sul marciapiede. Una finestra apre sul corridoio
interno, una stufetta elettrica appoggiata su un microscopico tavolino è accesa
per tentare di stemperare il freddo. Nel bagno non c'è acqua calda. Noncuranti ci
sistemiamo e ci addormentiamo. La notte è segnata dal rumore di qualche
macchina che sfreccia rombando a mezzo metro dalle nostre teste,
dall'inquietante presenza del guardiano di notte, che dorme vestito sul divano,
dall'altra parte della parete in cartongesso, un metro lontano dai nostri
piedi.
E nel
dormiveglia del primo mattino si insinua, come un profumo, il canto dei
muezzin, che dagli altoparlanti chiamano i fedeli alla preghiera.
È questa
l'accoglienza che volevo. Benvenuti a Istanbul.
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