Certo, non
c'era paragone con il progetto che aveva previsto per la moschea Selimiye a
Edirne. Impianto centrale, pianta ottagonale coperta da una cupola
contraffortata da otto semicupole, un apparato decorativo di una grazia e
ricchezza mai viste. Il mihrab splendente di luce naturale. Il tutto circondato
da ospedale, madrassa, biblioteca, hammam, negozi.
Sarebbe
stata il suo orgoglio, il suo capolavoro.
Eppure Sinan
guardò la Suleymaniyyè, la moschea imperiale che aveva terminato da qualche
anno, e non ebbe dubbi. Istanbul era Istanbul, e non una qualsiasi città della
periferia dell'Impero. Non che gli fosse riuscita male, intendiamoci. Solimano
non l'avrebbe mai permesso. La moschea intitolata al figlio deceduto
prematuramente doveva essere maestosa ed affascinante. Il modello che aveva
scelto, poi, era di tutto rispetto. Lo schema planimetrico era sostanzialmente
il medesimo di Aya Sofia, la grande chiesa che Giustiniano aveva fatto
costruire a suo tempo, e che tanto stupore ancora destava. Giardini curati
in ogni dettaglio davano accesso al cortile dove si trovava la fontana per le
abluzioni. Sul lato opposto un cimitero si estendeva approssimativamente della
stessa dimensione del cortile. All'interno della moschea un apparato decorativo
prezioso ma semplice sottolineava quasi unicamente la presenza della grande
cupola. Il mihrab era rivestito di maioliche di Ïznik e circondato di vetrate
policrome.
Seduto qui,
ad un passo dalla sua opera, la guardò con attenzione, come chi valutasse il
futuro. Ed infine si decise. "Il Grande Architetto", come lo
chiamavano ormai, sarebbe stato sepolto dentro la sua più grande opera, nella
capitale dell'Impero, dentro la Suleymaniyyè.
Volse lo
sguardo altrove. Sopra le cupole delle madrasse, oltre i tetti delle case di
Fatih, seminascosta da volute di fumo che salivano nel cielo plumbeo (o forse
era la sua vista?), stava la moschea di Fatih con i suoi minareti a puntare
verso l'alto. Ferita dal terremoto di qualche anno prima, eppure ancora lì,
solida, a resistere al tempo che passava.
Si guardò le
mani. Le pieghe incartapecorivano i suoi palmi di ottantenne, un leggero
tremolio le scuoteva. Chi l'avrebbe mai detto, Sinan, si disse. Un albanese
come te, un cristiano ortodosso albanese come te. Niente di tutto questo
sarebbe stato creato se l'Impero non ti avesse prelevato, imberbe, e reclutato,
addestrato per essere spedito alla guerra. E ogni volta tornavi. E ogni
volta che tornavi scalavi un gradino della gerarchia militare, sù, fino a
diventare ufficiale. Non c'era altro modo, d'altronde, per conoscere il mondo.
Non c'era un'altra via per vedere le grandezze costruite dall'uomo e diventare
così mastro, costruttore, architetto. Di più. L'architetto del sultano. Con
queste mani e questo ingegno hai plasmato le più importanti opere degli ultimi
trent'anni. Hai creato qualcosa di immortale, di una bellezza imperitura.
Sospirò,
alzandosi lentamente dal prato, le giunture che cigolavano.
Cara, disse
rivolgendosi mentalmente alla sua opera, staremo insieme per l'eternità.
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