domenica 28 aprile 2013

sinan - day 3



Certo, non c'era paragone con il progetto che aveva previsto per la moschea Selimiye a Edirne. Impianto centrale, pianta ottagonale coperta da una cupola contraffortata da otto semicupole, un apparato decorativo di una grazia e ricchezza mai viste. Il mihrab splendente di luce naturale. Il tutto circondato da ospedale, madrassa, biblioteca, hammam, negozi.
Sarebbe stata il suo orgoglio, il suo capolavoro.
Eppure Sinan guardò la Suleymaniyyè, la moschea imperiale che aveva terminato da qualche anno, e non ebbe dubbi. Istanbul era Istanbul, e non una qualsiasi città della periferia dell'Impero. Non che gli fosse riuscita male, intendiamoci. Solimano non l'avrebbe mai permesso. La moschea intitolata al figlio deceduto prematuramente doveva essere maestosa ed affascinante. Il modello che aveva scelto, poi, era di tutto rispetto. Lo schema planimetrico era sostanzialmente il medesimo di Aya Sofia, la grande chiesa che Giustiniano aveva fatto costruire a suo tempo,  e che tanto stupore ancora destava. Giardini curati in ogni dettaglio davano accesso al cortile dove si trovava la fontana per le abluzioni. Sul lato opposto un cimitero si estendeva approssimativamente della stessa dimensione del cortile. All'interno della moschea un apparato decorativo prezioso ma semplice sottolineava quasi unicamente la presenza della grande cupola. Il mihrab era rivestito di maioliche di Ïznik e circondato di vetrate policrome.
Seduto qui, ad un passo dalla sua opera, la guardò con attenzione, come chi valutasse il futuro. Ed infine si decise. "Il Grande Architetto", come lo chiamavano ormai, sarebbe stato sepolto dentro la sua più grande opera, nella capitale dell'Impero, dentro la Suleymaniyyè.
Volse lo sguardo altrove. Sopra le cupole delle madrasse, oltre i tetti delle case di Fatih, seminascosta da volute di fumo che salivano nel cielo plumbeo (o forse era la sua vista?), stava la moschea di Fatih con i suoi minareti a puntare verso l'alto. Ferita dal terremoto di qualche anno prima, eppure ancora lì, solida, a resistere al tempo che passava.
Si guardò le mani. Le pieghe incartapecorivano i suoi palmi di ottantenne, un leggero tremolio le scuoteva. Chi l'avrebbe mai detto, Sinan, si disse. Un albanese come te, un cristiano ortodosso albanese come te. Niente di tutto questo sarebbe stato creato se l'Impero non ti avesse prelevato, imberbe, e reclutato,  addestrato per essere spedito alla guerra. E ogni volta tornavi. E ogni volta che tornavi scalavi un gradino della gerarchia militare, sù, fino a diventare ufficiale. Non c'era altro modo, d'altronde, per conoscere il mondo. Non c'era un'altra via per vedere le grandezze costruite dall'uomo e diventare così mastro, costruttore, architetto. Di più. L'architetto del sultano. Con queste mani e questo ingegno hai plasmato le più importanti opere degli ultimi trent'anni. Hai creato qualcosa di immortale, di una bellezza imperitura.
Sospirò, alzandosi lentamente dal prato, le giunture che cigolavano.
Cara, disse rivolgendosi mentalmente alla sua opera, staremo insieme per l'eternità.

Nessun commento: