venerdì 28 settembre 2012

predestinato



Bei personaggi, gente con una tenacia che oggi pochi sembrano avere, distratti come si è da mille impegni e, in fondo, non impegnati più in nulla. Questi erano personaggi con una sola idea, ma quella era ferma, sicura. Era anche gente con poche scelte e forse proprio per questo più dura e in fondo più felice. [...] le sue scelte erano estremamente limitate, e con ciò aveva un "destino". Oggi le alternative di ciascuno sono molte di più, la mobilità sociale ha aperto a tutti la possibilità di aspirare a qualsiasi cosa, ma con ciò nessuno è più "predestinato" a nulla. È forse per questo che la gente è sempre più disorientata e incerta sul senso della propria vita.

Tiziano Terzani

torba - day 6




Acqua. Acqua che affiora trai ciuffi d'erba, che si fa spazio tra le piccole colline, che circonda i segnali stradali. Uno specchio di cobalto, come fosse la sostanza della terra. Ovunque. Ed una strada che corre, disegnando curve inspiegabili in mezzo a questa piana palude rigogliosa e soleggiata.
E finalmente capisco cosa sia una torbiera.

giovedì 27 settembre 2012

kylemore - day 6



A quanto pare al signor Henry la zona era piaciuta alquanto. D'accordo, la strada passava proprio tra il lago e la futura residenza, ma questo non era un gran problema. Aveva appena abbandonato la professione di medico per gestire gli affari del padre a Manchester, ed i soldi certo non gli mancavano. Decise allora, anni dopo quella magnifica luna di miele, di acquistare tutta l'area a nord della Diamond Hill e di spostare la strada sulla sponda opposta del lago di Kylemore. Ingaggiò un centinaio di braccianti, presi tra la povera gente del posto, che per quattro anni si sarebbero dovuti dedicare alla costruzione dell'ambizioso castello.
Il signor Henry era benvoluto dagli abitanti della provincia, e la sua fama si espanse ben presto in tutto il Connemara. Di indole profondamente romantica, non peccava tuttavia di senso pratico e lungimiranza. Fu così che quando conobbe il signor Fuller, uomo che esercitava la propria professione a Manchester ma originario del Kerry, pensò di affidare a lui l'ambizioso progetto. Da parte sua l'architetto, interpretando lo spirito del suo committente, decise di cedere alle proprie inclinazioni per un certo gusto eclettico, recuperando elementi dal linguaggio gotico ecclesiastico e militare.
Quattro anni dopo l'uomo, che nel frattempo era divenuto parlamentare della Regina con al seguito una famiglia di nove figli, si trovò di fronte una facciata in pietra dominata da un massiccio corpo centrale di tre piani, affiancato da uno snello torrino ottagonale e due ali asimmetriche di due piani. Al di sopra del portale di ingresso, concluso con un curioso arco a sesto acuto ribassato, campeggiava un grande bow-window a due livelli di bifore sovrapposte, che illuminava la scala monumentale all'interno. Questa dava accesso a tutto il complesso, con le sue 33 camere da letto e 4 bagni,  la sala da ballo, quella per il biliardo, lo studio, l'aula dedicata all'insegnamento, la sala per fumatori ed quella per le armi, oltre ad un certo numero di stanze per domestici e servitù.
Un miglio più a ovest, al limite della tenuta, ordinò la costruzione di uno degli ultimi giardini murati d'Irlanda: sei acri di terreno, perfettamente esposti a sud e protetti dai venti freddi del nord, tre dei quali dedicati a giardino di piacere e tre ad orto. Al fine di mantenere la produzione per tutto l'anno, fece erigere una ventina di serre in ferro e vetro al di sotto delle quali crescevano le più varie specie di  ortaggi e frutta. Appassionato delle ultime innovazioni tecniche, Mitchell Henry predispose, oltre ad una piccola centrale idroelettrica, un sistema di canalizzazioni interrate che dalla dimora principale portavano aria calda fino alle serre garantendone un clima ottimale anche nei freddi inverni.

Purtroppo l'idillio del suo Paradiso personale durò ben poco. Infatti sette anni dopo, di ritorno da un viaggio in Egitto, la moglie si ammalò di una strana febbre ed in breve tempo si spense, coccolata fra le mura del castello che lui aveva costruito. Il signor Henry rimase, comprensibilmente, profondamente scosso. Tutto l'ingegno, l'impegno, l'amore e l'armonia con cui egli l'aveva circondata non erano stati sufficienti a garantir loro che un paio di anni di felicità. Affranto ma indomito, decise allora di far costruire in suo onore, vicino alla sponda del lago, una piccola chiesa. Eppure lo stile gotico poco si addiceva alla grazia e femminilità della defunta moglie. Quello che il signor Henry cercava era uno scrigno dove cercar conforto, un'alcova calda che si specchiasse sulle gelide acque del lago. Cominciò a prendere forma un progetto dove non vi fossero più, sotto le gronde, mostruosi gargoyles ma angeli proiettati verso il cielo. Nelle facciate fiorirono una gran quantità di piccoli rosoni, le nervature della copertura si incrociarono in grappoli floreali, una trama di petali lapidei rivestì le pareti. Nè badò a spese per ottenere l'effetto che desiderava. Internamente, ad impreziosire la superficie di arenaria, vennero collocati fasci di colonne costruite con le pietre provenienti dai quattro angoli dell'Irlanda, dalle nere pietre vulcaniche ai marmi pregiati. Un tappeto in legno sosteneva le file di panche, riscaldate da canalizzazioni ipogee.
Ma tutto questo non bastò. E non fu sufficiente neppure erigere un piccolo mausoleo, al riparo di uno dei grandi alberi. Il signor Henry non riusciva più sopportare di vivere da solo in quel luogo, in quella terra così ambita e a cui aveva dato tanto. Decise allora di abbandonare Kylemore. Abbandonando la sua dimora alle nebbie dell'ovest.


indomita



Con i denti. Le unghie, l'entusiasmo ed i denti.
Ad affermar continuamente la nostra libertà, non solo nonostante le difficoltà, ma anche grazie ad esse.
Una vita cercata, bramata ed afferrata. Una vita sofferta e piena. Indomita.
E che inizia quando meno te lo aspetti.

lunedì 24 settembre 2012

il sostegno




Arrivo al Sostegno dei Landi, rallento e comincio a camminare. La corsa, in fondo, non era altro che una scusa. La casa di manovra è un edificio fatiscente del secolo scorso con semplici modanature in mattone a vista, affiancato da quel che resta di un'ex-cartiera. Doveva avere una sua dignità, una volta, mentre ora le gronde sono divorate dall'ossido, le tegole rotte o scomparse. Risalendo il canale noto un signore che vanga il piccolo triangolo di terra che si trova tra il sentiero ed il Canalazzo. Poco più avanti c'è un ragazzo, probabilmente un gitano, che è entrato in una recinzione ed ora salta tutto contento su di un gigantesco tappeto elastico. Passo sotto il cavalcavia della tangenziale. Qui i resti di un'umanità reietta non sono neppure occultati. Trai grandi piloni di sostegno si trovano materassi, carrelli, vestiti e su di tutto ciò campeggia un grande murales: il mondo è ammalato. Stretti tra le sponde del maleodorante canale ed i piloni, a contatto con tutti gli animali che lo abitano, per tetto la tangenziale, qui "risiedono" almeno un paio di persone. Dall'altra parte del Navile una recinzione circoscrive un campo con alcuni furgoni parcheggiati ed i segni, anche qui, di una vita nomade. Proseguo lentamente, mentre sciami di zanzare banchettano amabilmente su di me. Passato il cavalcavia un profumo di uva e di mosto mi pervade. Sull'altra sponda si trova, malconcia, una vigna. In poco tempo arrivo al Sostegno dei Torreggiani, ormai in rovina. Continuo a costeggiare i due canali, uno dei quali ormai non è altro che un letto in secca ricoperto di vegetazione. Arrivo ad un ristorante, da Sandro sul Navile. Incredibile come anche oggi i camerieri preparino i tavoli, i cuochi cucinino, ed il padrone del locale si aggiri cercando di assicurare un minimo di decoro a questa casa gettata su queste acque che profumano di fogna. Gli asciugamani e le tovaglie stese ad un filo ancorato tra due alberi, a pochi centimetri dalla selva di giunchi che ha preso il posto del piccolo canale, mi ricordano scene in bianco e nero da inizio secolo.

giovedì 13 settembre 2012

monaci





C'è un momento in cui ci guardo e non posso fare a meno di sorridere.
Io che ti parlo in inglese mentre sbraiti con tua sorella in spagnolo, e lei che mi spiega in italiano. Ed è bello guardarci sotto questo cielo stellato, questi alberi ancora verdi, in mezzo al biergarten. Sapere di avere qui un'isola, un rifugio perenne, una seconda famiglia, un nido di anormalità confortante.

mercoledì 12 settembre 2012

diamond hill - day 5




La chiamano Diamond Hill, anche se il crinale in realtà è ben più esteso di quanto si immagini. È da qui che si domina il Connemara Park in tutta la sua maestosità. Ed è da qui che non si può fare a meno di rimanere meravigliati.
Tutto intorno, fino all'orizzonte (fino alle montagne erbose, fino ai laghi profondi e allo sconfinato oceano) la natura regna sovrana, padrona dello spazio e del tempo da sempre. Non strade, non case, non ponti. Non vi sono ferite artificiali a tagliare il suo corpo, ma crepe scavate da ruscelli e fiumi, conche riempite dall'acqua e foreste improvvise. Solo si intuisce qualche piccola casa svanire nell'orizzonte della costa, nascosta nella boscaglia fitta del lago, ed una lingua in doghe di legno che sorvola la grande torbiera.
Il resto è natura, pura e incontaminata.


omey island - day 5



Poi la marea scende e lentamente scivola acqua su acqua. Gli scogli diventano rocce, le alghe si sdraiano sul fondale ed i pesci riprendono il largo. L'oceano, piano piano, lascia il posto alla sabbia fino a che quella che era una piccola isola diviene una penisola, un piccolo mondo ricongiunto alla terra madre da un ampio cordone ombelicale d'arena bianca. La spiaggia più chiara, ampia e pacifica che abbiamo visto in tutto il Paese.
È l'isola di Omey, che nel suo appartato silenzio custodisce un lago ed un cimitero.


martedì 11 settembre 2012

più moralità




Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i figli a essere onesti, non furbi.
Riprendiamo certe tradizioni di correttezza, rimpossessiamoci della lingua, in cui la parola "dio" è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire "fare l'amore" e non "fare sesso". Alla lunga anche questo fa una grossa differenza.

Tiziano Terzani

mercoledì 5 settembre 2012

danza urbana





E ad un certo punto la città non c'è più. O meglio. Non è proprio che non ci sia più. La Rossa continua a circondarci ma rapidamente scompare, svanisce. Si eclissano gli edifici di via Don Minzoni nella luce della sera, sfuma la massiccia schiena del Mambo, svapora questo canale in secca che ci divide da lei.
Sì, perchè è lei, Emily Tanaka, che ha spento le luci sulla platea cittadina per accenderne una, microscopica, su di sè. Strane scarpe in pelle scura ai piedi, fasce nere aderenti a disegnarle le ginocchia, un vestito corto, comodo, nero anch'esso, tagliato sulle spalle, una frangia di capelli nerissimi. E tutto ciò che emerge è una pelle perlata e due occhi inequivocabilmente orientali.
Si muove, Emily, confinata tra il letto sfatto del canale e l'alta parete in mattoni. Aspetta che la penombra della sera si porti via le ultime certezze, lascia scorrere stralci di musica, lo spirito dei Mogwai, e poi si scosta lentamente, con movenze antiche e moderne, un automa preistorico, la rozza primitività di una corporeità fluida. E così se li porta via. Lo spazio, risucchiato in quelle movenze magnetiche che riducono il mondo alla sfera che la circonda, quella piccola bolla di luce creata dalla lanterna che lei porta a spasso. Gli occhi sfarfallano nel tentativo di catturarne i movimenti, traditi da una notte che ancora non è. Si porta via il tempo, scuotendosi, voltandosi al rallentatore, comprimendo passato e futuro con il suo cibernetico camminare a ritroso.
E si porta via le nostre pene, stregate da un connubio impossibile tra l'anima nipponica e le sonorità elettroniche.

domenica 2 settembre 2012

due di due




Quando l'incidente capita a un maschio, e l'infortunato si mette a piangere, gli altri si aspettano da lui che esca dall'azione e smetta di lamentarsi, in modo che il gioco possa proseguire. Se la stessa cosa accade in un gruppo di bambine, il gioco si ferma e tutte si raccolgono intorno all'amica che piange per aiutarla. 
[...] i maschi vanno orgogliosi di un'indipendenza e un'autonomia tipica del tipo duro e solitario, mentre le femmine si interpretano come elementi di una rete di connessioni. Pertanto, i bambini si sentono minacciati da qualunque cosa possa mettere in discussione la loro indipendenza, mentre le bambine lo sono di più da una rottura nelle loro relazioni interpersonali.

Daniel Goleman - Intelligenza emotiva

giovedì 30 agosto 2012

carraig na creine - day 4



Salgo i due gradini e suono il campanello, pronto a chiedere se per caso non sia rimasta una stanza per la notte. Dopo qualche momento di attesa la porta si apre e sulla soglia appare una signora sulla settantina, rimpicciolita dall'età. Da dietro gli occhialini lei appoggia sui miei i suoi occhi gentili e con dolcezza mi dice:
- Buonasera, come va?
Interdetto da tanta gentilezza, resto un momento sulla porta a bocca aperta, non riuscendo ad esternare immediatamente la fredda pragmaticità della mia richiesta.
- Buona sera a lei - riesco finalmente ad esordire -. Ci domandavamo se per caso non le fosse rimasta una camera libera per stanotte.
Lei mi osserva e lentamente volge lo sguardo verso la nostra macchina.
- Quanti siete?
- Soltanto due - le dico.
Lei fa un movimento lento che le serve per prendere tempo e cercare di farsi un'idea, immagino, su chi siamo, su se sia il caso di darci ospitalità.
- Dunque, dovrei avere una doppia, se per voi va bene.
Entriamo in uno stretto corridoio, perlinato in legno chiaro dalle venature rosse per pavimento, intonaco crema tendente all'arancio per le pareti. La nostra stanza sembra una reggia nordica, comparata a quello cui eravamo abituati. Due grandi finestre dagli infissi in legno bianco affacciano sul giardino, protette da pesanti tende in stile montano. Tra il letto matrimoniale ed il singolo, entrambi con testata in legno inciso, si trova una bassa cassettiera bianca. Una parete della stanza è completamente rivestita in legno e da essa emergono una mensola, dove si trova un vassoio con due bicchieri ed una brocca d'acqua, ed una consolle con un grande specchio davanti. Anche il bagno è curato ed accogliente, con dettagli e ripiani in legno.
La signora ci si avvicina, silenziosa e premurosa e ci domanda:
- A che ora pensate di svegliarvi domattina? A che ora preferite la colazione?
Rimango quasi commosso dalla domanda.
- Vi va bene la tipica colazione irlandese?
E così ci prepariamo, contenti come pasque, e ci fiondiamo nel piccolo centro di Clifden.

Nella tenue luce del mattino la sala della colazione sembra grande ed accogliente. Ancora una volta il legno regna sovrano, ricoprendo pavimenti, pilastri e soffitto. Una grande finestra si apre verso ovest. Dietro di noi un grande camino con base in pietra, due poltrone ed una serie di foto di famiglia. Su un tavolino si trovano cereali, latte, frutta, yogurt, salse, burro, marmellate e condimenti vari. Ci sediamo e dopo poco zia May (ormai così ribattezzata perchè identica alla zia di Peter Parker) ci porta due piatti con uova fritte, salsicce, pancetta, pomodori, wurstel, accompagnati da succo di frutta, tè e pane ai cereali. Allettati da tanta bontà cominciamo a chiacchierare con la simpatica signora. Le domandiamo del magnifico telefono anni '20 (non funzionante) che tiene in sala, del tempo in Irlanda (clichè immancabile), della situazione lavorativa nel Paese (tutti quanti se ne vanno non solo dalle campagne ma anche dalle città, puntando verso altre nazioni meno in crisi), ed infine del perchè non ci siano tanti alberi, nonostante l'Irlanda sia così incredibilmente verde.

Mentre siamo sull'uscio confesso a zia May di non aver mai mangiato prima la tipica colazione irlandese.
- Tanta gente dice anche che non la vorrà mangiare mai più - mi dice con un occhiolino.
- No, no - mi affretto a chiarire - io la mangerei molto volentieri.
- Allora non te la dimenticare.
- Non lo farò, non si preoccupi.

Ce ne andiamo con una strana sensazione di contentezza dentro. Sarà la super-colazione. Sarà la gentilezza inaspettata della padrona di casa del Carraig na Creine. Sarà la bellezza del Paese. Non lo so. Ma in ogni caso è stato bello. Anche se ancora non ho capito cosa ci facciano, davanti a casa, un aquascooter riempito di fiori ed una gigantesca turbina navale.

clog - day 4




Perchè no. Perchè no, deve aver pensato. Dev'essere bello. Scivolare lungo la costa, trovare un varco, risalire a lato delle scogliere, correre di fianco ai campi, visitare i villaggi, essere "dentro" ai villaggi. Farmi circondare dalla terra, materna e soffice, farmi abbracciare, rinchiudere, quasi rinchiudere. E andare a morire là dove il sole dalla terra sorge e nella terra tramonta. Là dove non ci sono tempeste, dove il mio carattere finalmente verrà domato dalle anse sinuose delle colline e dei prati, e le mie ansie spariranno. E dove, finalmente, potrò vedermi come da fuori, come in uno specchio, vedere chi sono - chi non lo desidererebbe?

Questo deve aver pensato quando arrivò sulla costa ovest, nei pressi di Clog.
Questo deve aver pensato l'oceano quando creò l'unico fiordo d'Irlanda.

mercoledì 29 agosto 2012

mayo - day 4




Chilometri. Uno dopo l'altro. Uno di seguito all'altro, per minuti, ore, giorni. Chilometri lungo una striscia d'asfalto che corre adagiata sul corpo di questa terra, di questa Madre Terra, così prospera e rigogliosa, così accogliente e benevola. Centinaia di chilometri percorsi su di un nastro grigio, una pellicola di fotogrammi d'asfalto, la corsa di due linee bianche, tratteggiate, come le linee lungo cui tagliare, lungo cui incidere l'artificiale per lasciar spazio alla natura. La sventagliata di due colpi di inchiostro che corrono, candidi,  verso l'orizzonte, scomparendo dietro curve, dossi, colline. E in mezzo, sulla mezzeria, tante piccole lucine, fari in miniatura sulla rotta verso l'indomito e l'infinito. Lucciole al led, sirene per le notti di nebbia, e per i fumi dell'alcol, forse. E tutto intorno la pelle, una pelle soffice e verde, morbida e precisa, come un mantello che si posi su queste membra, su questo corpo così florido e tenace, tonico nelle sue forme ed essenziale, mai violento. Sul corpo, vivo e possente, della Madre Terra, dell'ancestrale forza generatrice.

lunedì 27 agosto 2012

due in uno




E continuare, ogni giorno, ad averne nuove prove, nuovi esempi da catalogare, nuove conferme.
Vite che si scelgono per prassi, per comodità, per pragmaticità. Come si comprerebbe un ombrello in un giorno di pioggia. Perchè da soli non ce la fanno, zoppi esistenziali, che continuano a passare costantemente da una persona all'altra, pur di non sentire, vorace, il vortice della solitudine, dell'individualità, della sproporzione col mondo. Si danno regole, norme, leggi di convivenza, come se l'affetto fosse un patto sociale, la famiglia un nucleo burocratico, la notte una parentesi. Si scelgono per mancanza di fantasia, allineandosi a ciò che hanno ereditato da millenni di storia, semplicemente perchè non hanno abbastanza immaginazione per inventarsi qualcosa di meglio che spegnersi reciprocamente. Scelte per paura di un orologio che corre, che ci porta via gli anni, e allora certe cose van fatte, certi traguardi tagliati, che poi l'importante è tagliarli, non importa come o con chi. Perchè sono quelle medaglie che sempre si portano a giustificazione di un'esistenza indegna, quasi fossero sufficienti, per il solo esserci, a giustificare una cattiva vita. Una delle tre medaglie che sanciscono, ancora agli occhi di molti, la differenza tra una vita fallimentare ed una vita compiuta. Scelte perchè si deve, perchè ci tocca, perchè così si fa. Scelte per ridurre al minimo le delusioni, riducendo al minimo le ambizioni a provarci. Concentrando il mondo in una stanza, trasformando i dettagli nel tutto, assumendo per oggettiva la soggettività di una convinzione, immolando le peculiarità del proprio io sull'altare di un noi schizofrenico.

Fu in quella- precisamente in quella [faccia]- che lo sguardo di Hector Horeau si incagliò, e più in generale tutta la sua vita si incagliò, e più in generale ancora il suo destino si incagliò. Non era poi una faccia bellissima, come lo stesso Hector Horeau non ebbe mai difficoltà ad ammettere negli anni seguenti. Ma ci sono navi che si sono incagliate nei posti più assurdi. Una vita si può ben incagliare in una faccia qualunque. 
[...] Non lo sapevano, ma stavano, simultaneamente, entrando in otto anni di tragedie, strazianti felicità, ripicche crudeli, pazienti vendette, silenti disperazioni. Insomma, stavano per fidanzarsi.
A. Baricco - Castelli di rabbia

E poi, finalmente, qualche buon esempio. Qualcuno sano, la cui vita a due dà maggior senso alla sua vita da solo. E allora, con un sospiro, posso ancora sperare.

derry - day 3




In fondo, pare che in questa città non ci sia poi molto. Sarà che è domenica, poco prima della sera, sarà che è un orario inutile, sarà che il tempo rende tutto quanto silenzioso e grigio. Ma per le strade non si vede anima viva, se non 4 ragazzini che giocano intorno ad una piccola discarica di cantiere.
Siamo a due passi dal confine tra le due anime d'Irlanda, quella della Repubblica e quella dell'Ulster. Londonderry (o, semplicemente, Derry), si adagia lungo l'ansa del fiume, poco prima che questo divenga ampio, e forte, e oceano. Attraversiamo le mura ciclopiche, le uniche rimaste ancora intatte su tutta l'isola, e ci aggiriamo per vie spopolate di serrande abbassate e muri in mattoni.

È qui, usciti dal centro, a due passi dal fiume, tra un lurido kebabbaro e degli assurdi lampioni retrò, che troviamo un piccolo negozietto dove finalmente possiamo spendere le ultime sterline rimaste, prima di varcare la frontiera. Qui ci sono solo alcoolici, con un'intera stanza-frigo dove riposano le birre. Decidiamo, infine, di portarci via un cartone di Guinness, e ci rechiamo alla cassa. Prepariamo le 4 sterline ma a quanto pare costano più di quanto avessimo previsto. Il cassiere, con calma olimpica o noia biblica, ci guarda, guarda fuori, poi alza le spalle e torna a leggere il suo giornale, intendendo con questo il conto saldato.
Grazie amico. E con questo bottino ci apprestiamo a far ritorno nell'Eire.

coleraine - day 3



Ci sediamo in ultima fila, ovviamente, ma questo non è sufficiente a farci passare inosservati. Vestiti con jeans e maglietta, zaino in spalla, spicchiamo nel nutrito gruppo di ultracinquantenni in giacca e cravatta, vestito e cappellino.
Sul palco, dietro ad una piccola ringhiera in legno, ci sono due uomini. Uno sta parlando al microfono in questo momento, mentre l'altro siede un po' più lontano. Dice di qualcuno, che verrà venerdì prossimo a raccontare della sua esperienza in America del Sud, e si augura che ci saremo tutti. Mentre scende dal palco quasi si porta via il microfono, scatenando un sorriso generale, sostenuto da una pronta battuta del suo compagno. È questi allora a prender la parola. Il tono scherzoso ed amorevolmente autoritario di chi sa di avere l'auditorio dalla sua, i gesti esperti, le pause opportune. Alterna lievi battute ad incoraggiamenti alla comunità.
Ci guardiamo intorno. Le panche sono in legno, ma diverse da quelle che siam abituati a vedere. Sedute molto corte, coperte da cuscini, braccioli molto alti agli estremi, con ampie volute vittoriane. La distanza tra una e l'altra è estremamente ridotta, giusto lo spazio per le ginocchia, così che la sala risulta gremita da un numero incredibile di posti. Occupati solamente una ventina. Le pareti sono ricoperte fino a 2 metri da terra da un perlinato di legno scuro, con una cornice sommitale intagliata leggermente. Al di sopra alte aperture in finto stile gotico, con strombature in pietra pronunciate ed archi a sesto acuto ad incastonare finestre con decorazioni a piombo. Quello che sembra un palco presenta varie sedute, tutte il legno, un largo piano d'appoggio e, sul lato destro, un organo girato di tre quarti, al cui posto siede una signora. Dietro a tutto ciò campeggia quello che dovrebbe essere un rosone, nel quale spicca la decorazione di una stella a sei punte.
Mentre osserviamo tutto ciò, l'uomo sul palco comincia a parlare di salmi. Dietro di lui, inaspettatamente, vediamo comparire delle scritte su uno sfondo celeste, relative ai passi che sta citando, proiettate da chissà dove. Quella che dovrebbe essere una messa è, a tutti gli effetti, una sorta di lezione, un'incontro cattedratico dove il prete, con tanto di powerpoint e bicchiere d'acqua sul leggio, espone ai suoi fedeli la parola del giorno. Incredibile. Estremamente pragmatico. Anche quando, dopo un cenno all'organista (a questo punto, direi, sua moglie) partono con una canzone tradizionale le cui parole compaiono, con tempismo perfetto, proiettate dietro di lui. Un karaoke liturgico.

Non conoscendo bene i tempi perdiamo l'attimo per allontanarci appena finita la funzione e, prontamente, una mano si poggia sulla mia spalla.
- Ciao ragazzi, ben venuti. Potevate mettervi più in mezzo, che le panche, là, sono più distanziate
- Non si preoccupi - rispondo quasi meccanicamente- tanto siamo piccoli.
Strette di mano, mogli che si presentano, amici che si avvicinano tentando di non sembrare invadenti, altri che ci guardano e sfilano, curiosi. E poi il solito balletto con i consueti cosa fate/ siamo in vacanza/ di passaggio/ di passaggio sì, un giro con la macchina per l'Irlanda/ bello, anche a me piacerebbe/ dovrebbe farlo/ di dove siete/italiani/ eh, avete visto, qua il tempo è un po' diverso/ già, noi ora abbiamo 40°/ già/ già/ è stato un piacere avervi avuto tra noi/ la ringrazio, arrivederci.

Fuori New Row è spopolata, anziana nella sua luce tardo pomeridiana. E così ci avviciniamo alla macchina, e salutiamo Coleraine.

l'infinito - a. baricco



E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla Sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono: Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali eppure sono belle. Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna. Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei ho un figlio e lo amo anche se tutto fa supporre che da grande farà l'assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto. La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c'è altro. Questa è la mia vita. Io lo so che non ti piace, ma non voglio che tu me lo scriva. Perché voglio continuare ad andare a letto, la sera, e addormentarmi.
Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l'infinto. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso.
Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole. È bello. E poi chi l'ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l'impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà? È proprio obbligatorio essere eccezionali?
Io non lo so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente: nemmeno delle mie soprascarpe. C'è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli.
Si guardava sempre l'infinito, a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c'è l'infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici.

domenica 26 agosto 2012

knocknarea - day 4



Sparpagliati su di un tappeto d'erba che si estende fino all'orizzonte, frastagliato da qualche casa bianca e qualche sparuto albero, stanno i resti di una civiltà megalitica. Pietre appoggiate le une sulle altre a creare un vuoto centrale, uno spazio riparato, protetto dal tempo che passa. Sono dolmen, monumenti funebri di una civiltà scomparsa da millenni. Il più grande tra quelli che si trovano nel cimitero di Carrowmore presenta un diametro di oltre una decina di metri, una calotta costituita da pietre di varia dimensione a coprire il nucleo centrale, un trilite che doveva custodire la salma di qualche grande personaggio dell'antichità.
È proprio uscendo da qui che i nostri occhi si imbattono sulla strana collina che si staglia a ovest contro il cielo plumbeo, a ridosso dell'oceano. Una collina dall'aspetto singolare, una protuberanza della terra verso il cielo, sormontata da un quello che, da questa distanza, sembra un disco, una calotta appiattita, una piramide tronca. Un luogo che la natura ha suggerito come sacro, un altare del paesaggio. Sarà per questo che Knocknarea, la Montagna della Luna, da sempre è stata oggetto di culto e generatrice di miti. Come quello che vuole che sotto il grande cairn a camera che campeggia sulla sua sommità sia stata sepolta Medb, la leggendaria regina guerriera della mitologia celtica. Seppellita in piedi, con indosso i vestiti rituali da battaglia, e rivolta a nord, contro i nemici storici. Ovviamente tutto questo non è mai stato smentito, visto che il gigantesco monumento megalitico (oltre 50 metri di diametro per 10 di altezza) non è mai stato profanato. Ma, in fondo, forse è meglio così. Qui la leggenda è presente, anche se non la si conosce. È tangibile nella potenza delicata di questa terra.

Spalle al cairn guardiamo davanti a noi la collina digradare fino all'oceano. Le pendici sono ricoperte da una bassa vegetazione che giunge fino alla costa dove una striscia piana di verde affoga e riemerge in forme sempre diverse. E mentre davanti a noi continuano ad alternarsi acqua e terra, si staglia all'orizzonte il profilo monumentale del Benbulben, dove giace il corpo di Dairmud, mitologico guerriero delle saghe celtiche.


l'estate - day 3




White House suonava bene come nome. E pure la posizione non sembrava male, affacciata sul fiume poco prima che diventi oceano, sull'abitato poco prima che diventi centro. Una piccola casetta bianca a due piani, tre finestre per piano, un ritaglio di prato davanti, un piccolo albero a farle ombra. Sotto una pioggerellina leggera ci avviciniamo per entrare quando vediamo un foglio appeso alla porta che recita "suonare alla casa dietro a questa".

La sala da pranzo è una stanza dalla moquette logora, un divano ed una poltrona sdruciti, le pareti di un crema slavato ed un vecchio caminetto malandato, retaggio di tempi migliori. La finestrella, dietro alle pesanti tende, guarda il piccolo giardino battuto dalla pioggia. A quanto pare al momento siamo soli nella casa e finalmente possiamo riposare un po', mangiare una zuppa di verdure fumante, bere le nostre Guinness in lattina. E poi fare due passi nel centro di Sligo, una volta attraversato il ponte.

Mi sto finendo di vestire alla poca luce del mattino che entra dalla finestra, gli occhi ancora appannati dal sonno. Il ragazzo pakistano che dormiva nella nostra stessa stanza sta finendo di vestirsi, camicia bianca e giacca grigia. Gli domando se sa di qualcosa di interessante da vedere in città. Mi risponde che è qui per lavoro solo da una settimana e che non ha avuto modo di visitarla. Gli domando allora se il tempo è sempre così d'estate, o se siamo stati sfortunati noi. Lui chiude la zip della sua giacca a vento, mi guarda e mi dice: "Non esiste, l'estate, in Irlanda". Apre la porta e se ne esce per andare incontro alla pioggia di un qualsiasi martedì d'agosto. 

martedì 21 agosto 2012

sliabh liag - day 3



Io qui non vedo niente, dico voltandomi indietro perchè mi senta.
Davanti a noi il risicato sentiero giunge sulla punta più alta e poi scompare, letteralmente, nel nulla. Ci mettiamo a carponi e con cautela ci avviciniamo al bordo. Aggrappati alla terra guardiamo giù e scopriamo che al di sotto di noi ci sono quasi 600 metri di strapiombo che finiscono dritti dritti nelle acque dell'oceano. Il sentiero (One Man's Path) scende precipitosamente lungo la parete del precipizio per un altro metro almeno, gira intorno ad una colonna di pietra completamente esposta e poi ritorna dalla parte protetta della scogliera. Pietrificati ci guardiamo in faccia e non abbiamo dubbi: dobbiamo trovare un percorso meno estremo.

Mentre corriamo lungo il sentiero sotto la pioggia, guardiamo indietro, e vediamo la parte più alta della Slieve League immergersi in una nube grigia carica d'acqua. Ancora una volta appena in tempo. 

lunedì 20 agosto 2012

la terra di mezzo - day 3




C'è una strada che esce dalla cittadina di Letterkenny e conduce agilmente a perdersi nell'entroterra, saltando da una parte all'altra del confine, senza condurre ad un luogo ben preciso. Bene, è proprio lungo questa lingua d'asfalto che passa per foreste e praterie, appezzamenti di verdi differenti e gruppi di capre, che ci siamo ritrovati a sostare, gustandoci la bucolica signoria della Natura.


in vino - day 2



Seguiamo le indicazioni dell'ubriaco di strada ed entriamo nel pub in Market Square, le pareti in pietra annerita, gli arredi in legno scuro. Ci sediamo al bancone rotondo sormontato da una grande cupola in rame ed ordiniamo da mangiare e da bere. Mentre cerchiamo di recuperare le forze a furia di carne e birra scura, dietro di noi un uomo canta accompagnato dalla sua chitarra acustica. Canzoni tradizionali, melodie celtiche, versioni folk di canzoni ben più famose. Un sound scuro e dolce, notturno e riposante, e una voce degna di questi luoghi.

sabato 18 agosto 2012

leipreachàn - day 2



Appena imboccata Port Road svoltiamo a destra risalendo il pendio. Il cartello Port Hostel ci conduce in una stradina sterrata, circondata di siepi ed alti alberi sempreverdi che oscurano la poca illuminazione presente. Passata una vecchia casa diroccata in stile vittoriano, la stradina termina con un cancello aperto, immerso nella vegetazione. Cauti entriamo con la macchina nel viale d'ingresso pronti a scoprire un desolato edificio fatiscente nella prima periferia della piccola Letterkenny. Con nostra grande sorpresa, invece, ci si para davanti la vista di un delizioso villino rurale ad un piano dalle falde scure e le pareti tenui. Decidiamo allora di scendere dall'auto e provare a chiedere se hanno posto per la notte. Sulla porta d'ingresso un foglio reca il numero di telefono da chiamare nel caso non vi fosse nessuno all'interno. Mentre aspettiamo mi affaccio alla grande vetrata a tripla anta scorrevole del soggiorno che affaccia sul giardino. Dentro si vedono distintamente un paio di poltrone ed un divano nella luce vivida e tremolante di un bel camino acceso. In pieno agosto! Fuori l'aria della sera s'è fatta carica di una pioggerella che non sa decidersi a scendere.
In pochi minuti giunge un'auto grigia da cui scende la padrona di casa che, salutatici calorosamente,  ci fa entrare. Dopo il piccolo ingresso, d'obbligo a queste latitudini, un corridoio a L distribuisce tutti gli ambienti della casa: il soggiorno con divani e camino, la grande cucina con ampia vetrata sul lavello, e poi i bagni con le camere. La nostra è una spaziosa quadrupla con finestra sul giardino.
Mentre sbrighiamo le questioni burocratiche rimango incantato dal fascino del camino, un elegante oggetto di artigianato con colonnine tortili e architrave mensolato in legno laccato, appoggiato su di un piano in granito e con bocca da fuoco costituita da un pannello metallico inciso e decorato con motivi classicheggianti. Il tutto protetto da una rete metallica con finiture in ottone. Al di sopra di questo una bacheca raccoglie varie foto degli anni passati in questo luogo. Ci sono tende accampate nel giardino antistante, feste notturne, barili di birra e diversi giovani che suonano e ballano. Tra tutti, una faccia attira la mia attenzione. Abbracciato alla padrona di casa, con qualche anno in meno, un simpatico signore guarda l'obiettivo. In primo piano emergono le sue mani, grandi e pelose, poi la sua camicia blu ed il suo gilet aperto sul davanti. Gli occhi, di un'allegria profonda e serena, spiccano nella cornice di una folta barba bianca e dei capelli che ancora non hanno perso completamente il loro originario color di carota. Un degno erede dei leipreachán, i folletti irlandesi.

venerdì 17 agosto 2012

giant's causeway - day 2



Uno stock di fruitjoy megalitico. Il magazzino di piastrelle ottagonali del mondo. Un immenso organo in pietra. Il più grande pacco di spaghetti mai buttato in acqua salata. Un nido di api del neolitico. La discarica di tutti i grafici a torre degli anni ottanta. O, perchè no, il selciato costruito da un gigante.

bianco su bianco - day 2




Appena più a ovest del paese la terra comincia a franare dolcemente verso l'oceano, in una scomposta caduta erbosa. La spiaggia è una mezzaluna di sabbia chiara, cosparsa di rami e strane alghe portate dalla corrente. E lì, nascosto dietro una piccola collina, annegato nella vegetazione, vigila silenzioso il piccolo ostello. Le pareti incartapecorite di bianco calce, le finestre rotte e la sua storia scritta su di un cartello che ne sancisce la morte per vandalismo.
E così resta solo, a sorvegliare le maree della White Park Bay.


al cospetto degli dei - day 1




Scendiamo la strada che passa di fianco alla sala da tè, alla chiesa con il suo camposanto di croci celtiche, e ci ritroviamo in riva all'oceano. Il sole è appena tramontato dietro i promontori all'orizzonte ed il cielo comincia a virare per lasciare spazio alla notte. Due cottages, costruiti sulla collina con le finestre rivolte al largo, si accendono rivelando il loro interno cavo e caldo. La luna sta sorgendo da est, piena e paglierina, sollevandosi dalla superficie delle acque.
Ci sediamo sugli scogli, queste rocce grigie ricoperte di muschi e di alghe che svaniscono nell'oceano. E ce ne stiamo lì, in silenzio, ad ascoltare.

E quello che sentiamo non è molto diverso da quello che sentivano secoli, millenni fa. Il suono di un animale dormiente, un ruggito sommesso e continuo, un respiro liquido e potente. L'oceano lo si sente. E non solo con l'udito. Lo si percepisce, al tatto, come si percepisce una persona vicina. È una presenza viva, quasi carnale, su questo non ci sono dubbi. E la sua potenza, ora mascherata dalla mansuetudine di questo tramonto, non può essere dimenticata.
E di sicuro non la dimenticavano i popoli antichi. Non mi stupisco che ognuno, ogni civiltà in ogni epoca, abbia dato un nome al dio del mare, al signore delle acque. Perché tale presenza è fatica immaginarla se non associata ad una qualche umanità, ad una qualche vitale presenza, con una volontà propria, un carattere imprevedibile. Capace di gesti di magnanimità e crudeli violenze senza un apparente senso, senza una coerenza vera. Un giorno portatore di vita, con i suoi doni ed i suoi pesci, e l'altro di morte, con le sue tempeste e le sue profondità.
Ma non si può convivere con una presenza così ingombrante se a questa non si trova un senso. Se non si riesce ad immaginare che la differenza che passa tra la vita e la morte abbia un disegno, seppur nascosto. E allora si cerca di lusingarla, come si può fare con un vicino potente ed irascibile. Ci si inventano i riti propiziatori, gli amuleti, le benedizioni, i santi. Si inventano i modi per placare l'animo volubile di un onnipotente, di un dio.

Tutto questo non è difficile da immaginare stando qua. Non servono libri. Questa notte la mitologia la riscriviamo noi.

giovedì 16 agosto 2012

rosse - day 1




Di fianco a noi stanno quattro ragazzi. Quello con il cappello potrebbe essere un italiano, anche se l'accento e l'abbigliamento paiono tipicamente di qui. Ma quella che attira la nostra attenzione è la ragazza che sta di fronte a noi, dall'altra parte del tavolo. Sotto la felpa pesante, con il cappuccio poggiato sulle spalle, presenta una corporatura massiccia, al limite del mascolino, come di chi lavorasse fisicamente. O (il che è più probabile visti i bicchieri che ha davanti) di chi beve tanto. I capelli, raccolti ma incolti, non hanno ancora deciso se essere castani o rossi. Ma, a quanto pare, a quegli occhi verdi tutto ciò non importa. E non importa neppure di nascondere la sua bellezza nel piccolo bar di un paese sperduto della contea di Antrim.
Mi avvicino al bancone. Gli anziani che stazionano stabilmente da quelle parti mi lasciano uno spiraglio per parlare con il barista. Cerco di farmi sentire nel caos generale. Gli urlo che siamo in due, seduti là, e che volevamo una Guinness ed una Ale. Il barista, un rubicondo anziano dai capelli bianchi e la pancia da tricheco, mi guarda e mi fa: "Ok, questo per un uomo. E per l'altro?"

sheep island - day 1




Sulla strada che da Ballycastle porta a Bushmills, fiancheggiando la costa nord dell'isola, dopo aver oltrepassato il bivio per il famoso ponte di corda di Carrick-a-Rede, si trova un piccolo villaggio chiamato Ballintoy. Come tanti altri paesini da queste parti è semplicemente un piccolo grumo di case raccolte sulla strada principale, un presidio di civiltà nella sconfinata landa dell'Ulster.
Poco prima che si sfilacci per tornare ad essere colline e prati, di fronte ad un tavoliere di campi che si gettano nell'oceano, si trova un accrocchio di casette bianche che risalgono verso la collina. È lo Sheep Island View Hostel.
Suoniamo nella casa dove vivono i gestori, che ci fanno strada verso l'ostello portandosi dietro le loro faccende di casa, qualche bimbo ed un gatto al seguito. La porta di ingresso è di quelle da stalla, con la parte superiore sempre aperta e quella inferiore chiusa. La signora ci mostra la stanza (la sestupla) e  ci chiede la cortesia di firmare il registro e pagarla subito. Così poi potrete organizzarvi come volete, entrare ed uscire quando preferite, afferma allegramente. Per quanto riguarda la porta di ingresso rimane sempre aperta, aggiunge mentre ripone il registro al suo posto, quindi quando tornate stasera, dopo aver cenato, basta semplicemente che ve la chiudiate dietro.
Magnifico. Niente chiave alla porta di ingresso, niente chiave in camera. Non potevo chiedere di meglio. Un paesino dove tutti si conoscono, così piccolo da aver due soli bar, uno di fronte all'altro, di fianco alla chiesa.
Parcheggiamo la nostra macchina-armadio di fronte all'ingresso e ci dirigiamo verso il bar per cena.



mercoledì 15 agosto 2012

vasche - day 0



Nella luce del primo pomeriggio osservo le gambe in ferro, il piano rivestito in materiale plastico bianco. Alle pareti ceramica da pochi soldi, un alto soffitto ed una decina di tavoli stipati uno vicino all'altro. Intorno a noi giovani teenager e signori del quartiere, tutti intenti a mangiare con gusto il fish&chips del fine settimana.
Henry Street è affollata di gente, desiderosa di godersi il sole che è appena uscito. Dietro a bancarelle di legno alcune donne vendono frutti di bosco, gridando le loro offerte. Un bambino, non più di dieci anni, suona canzoni tradizionali con un piccolo flauto, incantando i passanti. Un gruppo, una chitarra, un banjo, un cajòn de flamenco, un bodhràn, suona musiche celtiche sulla via richiamando i turisti.
I prati di St. Stephen's Green  sono impeccabili, bordati di cespugli in fiore e laghetti con le oche. Ci aggiriamo ancora un po' per il centro, pesci in un acquario.
Ormai è quasi buio. Il tavolino è nell'angolo in fondo al locale, appoggiato ad una parete di vecchi mattoni. Intorno stampe, foto di una natura possente e dominatrice. La cameriera ci accoglie con un insolito accento, un'eleganza dissimulata ed una treccia-rasta su un lato della nuca a corollario di una magnifica chioma dallo spirito igneo.

Poi una poltrona in un seminterrato in pietra, camini spenti e gente ovunque. Chiacchiere in altre lingue, stessi sorrisi e stessi sguardi. Una leggerezza invidiabile ed una gran voglia di vita. La pioggia nebulizzata. Il freddo ad agosto. Il folk, i banjo e le chitarre, le strofe urlate e vendute al dio del turismo. Giovani che chiedono l'elemosina. Strade sconosciute nella notte, a piedi sotto l'acqua. Rientrare in camera al buio, una camera non tua, una camera con persone a caso, vite tangenti inconsciamente. Ed un mondo che si spegne nella confortante scomodità di un letto in affitto.

Ed ancora una volta si ripete il rito, il ballo di due anime gettate nel nulla. La scherma di due esistenze.

fàilte - day 0




Riemergo dal torpore del sonno e, lento, guardo fuori.
Il mondo sta tutto in un oblò e nella languida percezione di un temporaneo risveglio.
Dai greggi di nubi emerge silenziosa la terra irlandese, prepotente nei suoi verdi carichi. Campi di colore intenso si cuciono in un quadro espressionista, un'opera di landart continua, il lavoro di un folle esteta. Vetrate medievali fatte di prati, piombate da arbusti e alberi, da muretti a secco, da strade sinuose. Visioni  di Hundertwasser stampate, spalmate sul corpo della terra. Quel corpo possente e forte, drammatico nella sua carica sensuale.
Poi le nebbie assalgono nuovamente i miei occhi e sprofondo in un sonno senza pensieri.

mercoledì 1 agosto 2012

e non è




Avevo tempo e silenzio: qualcosa di così necessario, e così naturale, ma ormai diventato un lusso che solo pochissimi riescono a permettersi. Per questo dilaga la depressione!
[...] La vita era una continua corsa, piena di doveri. Ogni rapporto era difficile, contorto. Non avevo - o credevo di non avere - mai un momento in cui tirare il fiato; mai un attimo in cui non mi sentissi in colpa per qualcos'altro che avrei dovuto fare. [...]
In quelle condizioni era normale essere depresso, come è naturale che lo sia per chiunque abbia ancora un'idea di quel che la vita potrebbe essere e non è.

Tiziano Terzani

venerdì 20 luglio 2012

lentamente


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca,
chi non rischia di vestire un colore nuovo,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi e' infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in sé stesso.

Muore lentamente,
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare.

Muore lentamente,
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore,
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza porterà
al raggiungimento
di una splendida felicità.



Martha Medeiros

la neve all'improvviso


Si avvicina al microfono. Ha una canotta bianca inguardabile, slargata, con occhi neri disegnati sopra. Le basettone gli segnano la mascella, sempre più pingue.
Questa canzone la dedico ad una persona che è qui, stasera - dice. Un'amica che è stata molto importante. Questo è per dirle che non importa quanti anni passino, quanto tempo. Certe cose sono vere, e lo restano per sempre. Questa canzone è per te, Francesca.
E comincia a sfiorare la chitarra elettrica, bianca opaca, candida. Davanti a lui tanti piccoli fari salgono da terra, come stalagmiti, lucciole cangianti. Poi una folla distesa nel grande prato, gli abeti ed il cielo stellato di Ferrara.
Il falsetto ci sottrae al caldo, ci trascina in un paesaggio nordico, dove risplende la neve, dove le grotte sono popolate di fiabe, dove il romanticismo è ancora vivo. E la musica è una coperta, calda e vibrante, che comunica sottopelle.

Bon Iver.

mercoledì 11 luglio 2012

buona fortuna


La facciata di Palazzo Re Enzo prende vita, arrossendo ed allungando le sue ombre, mentre addento la mia pita con falafel seduto sui gradini della chiesa. E mentre mi godo questa città, prima che inizi la vita della notte, nella cornice del mio film personale entra in controluce una sagoma dinoccolata. "Bonjour", ci dice sondando il terreno. "Ciao", lo salutiamo continuando la nostra cena vagabonda. "Potete fare qualcosa per noi, ragazzi?". Piano piano, senza nessuna fretta, si siede sul marciapiede di fronte a noi. Respira lento. Dice che è stanco. Che di solito cammina tanto, ma che ora gli fanno male i piedi. "E il mio amico, quello laggiù, vedete?", dice indicando un ragazzo sdraiato lungo i gradini della chiesa "beh, a lui l'hanno picchiato e ora non riesce più a camminare". Ha gli occhi cerulei, piccoli e profondi. Stanchi, incredibilmente stanchi. Hanno un fuoco sopito, dentro. Continua a guardarmi fisso, dritto negli occhi, facendo un occhiolino lento e piegando leggermente la testa di lato quando fa una battuta. "Ho 41 anni, sono in Italia da 25. Mia mamma era polacca, si è sposata con un carabiniere di Roma, ma mi hanno abbandonato quando ero piccolo. Ho girato tanto. Malaga, Valencia, Alicante, la Francia. Ora siamo a Bologna da 3 giorni". La pelle del viso è bruciata, macchiata, le dita sono state usate tante e tante volte, logore e grosse. I denti sotto, a ventaglio, rischiano di cadere; gli altri non riesco neppure a distinguerli.
Cristofer si chiama. Portatore di Cristo, gli faccio eco io. Speriamo, risponde lui.
Ama la storia, Cristofer. Ci racconta della Polonia, un grandissimo Paese, lacerato da tedeschi e russi. Ci racconta dei generali trucidati, dei documenti dati da Gorbaciov a Polanski, del patto Ribbentrop-Molotov completamente disatteso. Di chi è stato a liberare Bologna, di fughe dai treni, di una "madre che ben conosciamo" che aiutò i profughi.
Racconta bene, con patos nordico, parole scelte accuratamente ed espressione che cerca di non tradire emozioni. In un paio di occasioni si commuove, e ci chiede scusa.
"Io non mi vergogno di essere polacco" dice "si vergogna chi non sa qual è il suo Paese, cosa significa il suo Paese. Io non mi vergogno di essere polacco".
Mi alzo per salutarlo, gli porgo la mano e lo sollevo. Sarà alto più di due metri. Mi stringe forte la mano.
"Buona fortuna, Cristofer". "No, come dite voi, in bocca al lupo"

lunedì 9 luglio 2012

presepe


Lo vedo e non posso fare a meno di guardarlo. Un ragazzino sui dodici anni, il fisico atletico di chi è nel pieno della crescita, nel fiore degli anni. Una maglia buttata addosso con noncuranza ed un paio di pantaloni corti. Scarponi ai piedi. La pelle nera come il carbone.  Risale la collina, bastone in mano, battendolo qua e là sull'erba.
Poco più sotto una bimba di neppure dieci anni, con un vestitino di altri tempi, risale allo stesso modo il pendio, roteando il bastone. I due tracciano un disegno invisibile sull'erba e, senza toccarle, sospingono le mucche verso la stalla.
I miei compari continuano a parlare, ignari dell'immagine che mi ha rapito. Affondano i denti , sorseggiano il vino. Si godono l'aria fresca che tira su questa terrazza naturale, spalle alla malga e fronte alla montagna.

Ed io continuo a perdermi in questa immagine lenta, di un bambino nato nel cuore dell'Africa e finito a fare il pastore quassù, sulle Dolomiti friulane.

mercoledì 4 luglio 2012

meridiani



- Lo vedi? La spalla non riesce a toccare terra.
Le sue mani continuano a correre su di me, insinuandosi, strisciando, premendo. La scapola, il trapezio, la spalla. Con costanza perpetua il suo rotolare le dita sul mio corpo.
- Questo significa che la tua schiena è contratta, non è in armonia.
Il gazebo, piccola copertura bianca, si trova sotto un grande abete nel parco dell'università. Intorno è buio, è già notte da tempo, e nel cielo risplendono le lanterne di carta di riso.
- Da qualche parte c'è qualcosa che la blocca. E non è detto che sia una questione di postura lavorativa.
La gente continua a passare, ad accalcarsi, stipandosi attorno al palco qualche metro più in là. Un misto di suoni acustici e gotici, un finger-picking dopo l'altro, risuonano nell'aria.
- Potrebbe essere dovuto ai meridiani frontali, e non a qualche problema relativo alla schiena. E io penso che sia proprio così.
Kaki King sta dando sfogo alle sue capacità di chitarrista, il pubblico è seduto, in contemplazione. E qua, poco fuori dalla calca, sto sdraiato io, pancia a terra ed occhi chiusi. Le mani della massaggiatrice a ridisegnarmi i muscoli.
-Abbiamo due meridiani principali nella parte anteriore del corpo: quello dei polmoni e quello del cuore. Il meridiano dei polmoni è responsabile della tristezza mentre quello del cuore della gioia. Tu tendi ad inarcarti, a portare le spalle verso il petto, perchè tendi a proteggere questi due meridiani, perchè non sei in equilibrio con loro. Dico bene?

mercoledì 20 giugno 2012

altrove




Della vita che finora ho fatto non c'era un solo seme nell'esistenza di mia madre e di mio padre. Tutti e due venivano da gente povera e magnificamente semplice. Gente terrena, tranquilla, impegnata soprattutto a sopravvivere e mai inquieta, avventurosa o in cerca di novità come invece sono sempre stato io, fin da bambino. [...]
Da dove mi veniva allora la mia voglia di mondo, il mio feticismo per la carta stampata, il mio amore per i libri e soprattutto quella ardente bramosia di lasciare Firenze, di viaggiare, di andarmene lontanissimo? Da dove mi veniva questa smania d'essere sempre altrove?

Tiziano Terzani