venerdì 29 ottobre 2010

dia 6: amer



La Via Verde risale lungo il corso del fiume fin dove le nuvole si fanno più nere.

Ed è all’ingresso di Amer che si incontrano.

Il primo passo sul selciato antico del paesino viene battezzato da uno scroscio del cielo. Ancora una volta, come un’amichevole pacca sulle spalle, come se si fosse trattenuta appositamente fino all’ultimo, la pioggia cade su di noi a sera, sugli ultimi chilometri della giornata.

Sul bordo dell’abitato un tetto a ponte tra due edifici copre la stradina. Ci ripariamo un attimo ed entriamo in paese. La piazza principale, un bell’esempio di spazio porticato in pietra, circondata da edifici signorili, è gremita di gente. Stasera è la serata conclusiva della feria, la sagra di paese, e tutti sono in fibrillazione. Ci rechiamo in Comune per vedere se ci possono ospitare, ma i preparativi e l’imprevisto pioggia hanno totalizzato l’attenzione dell’unico funzionario. Facciamo quattro chiacchiere con la mezza dozzina di ragazzi che si trovano lì, incuriositi da questi due occhialuti cenciosi, che si presentano alla loro porta con zaini e tenda a seguito, e poi ci rechiamo alla pensione.

Doccia, cena e letto. E le voci della festa si spengono sotto lenzuola stirate e coperte di lana.

giovedì 28 ottobre 2010

dia 6: melodie sospese


Dopo aver raccolto le acque della regione vulcanica della Garrotxa e del basso Pireneo il Ter scende verso il mare. Una sessantina di chilometri prima di vedere l’alba nel Mediterraneo abbandona le valli strette e si adagia in una larga e fertile lingua di terra, un declivio che serpeggia verde e rigoglioso fino alla periferia di Girona. È qui che, senza preavviso, ci ritroviamo nell’America coloniale.

Mentre camminiamo attraverso una ricca ed alta vegetazione, ancora frastornati fisicamente e mentalmente dalla quantità di chilometri macinati il giorno prima, delle visioni oniriche spazzano le nostre retine dagli ultimi ricordi urbani. A lato del sentiero battuto,appena oltre un cordolo di terra e sacchi che canalizza l’acqua del fiume intorno agli orti, crescono piantagioni di neri. Nel sole del sabato mattina, avvolti nei loro abiti tradizionali, si aggirano per gli orti, raccolgono le loro verdure in carrelli dei supermercati, su mountain bikes, in passeggini. Colorati e silenziosi si piegano a raccogliere il frutto della terra. Ed è un attimo aspettarsi un canto, intonato dal lontano Ottocento e mai spento. Un canto di gloria e sofferenza, una melodia malinconica intonata da sorrisi d’avorio.

E invece niente.

Evidentemente la civiltà ha colpito anche loro, epidemia necessaria ed inevitabile del vivere moderno.

centimetri quadri


Sono lì che cerco di affogare il tempo con il solito inutile schema, che non ha mai portato a nulla di buono ma che continua a prendere possesso di me quando abbasso la guardia. Guardo lo schermo e le mie azioni sono al rallentatore. Il timoniere della mia nave a quanto pare è andato a sbronzarsi da qualche parte ed io son rimasto qua, a manovrare da solo sartie e issare vele senza saper dove andare. E gli occhi non mentono. Spenti e fissi, appoggiati su un orizzonte molto vicino.

È in quest’apatia che un pensiero, forse nascosto nella stiva, naufrago reduce da chissà quali avventure, si insinua nella mia mente, scalzando il vuoto, chiudendo la porta dietro di sé.

Ecco perché essere nomadi aiuta. Ecco perché sento il bisogno di tornare a viaggiare quando le insoddisfazioni si ammucchiano, calcificandosi.

Perché non avere nulla da difendere, nulla da proteggere rende più obiettivi. Quando non si ha paura di perdere qualcosa è facile essere onesti. Onesti e semplici.

E allora, almeno per un momento, vedo queste 4 righe che cerco di disegnare da ore per quel che sono. Vedo finalmente le mie mani, fuori dalle icone virtuali. Le facce intorno a me, assorte e concentrate. La luce che penetra il policarbonato rendendo lattiginosa l’aria dello stanzone a doppio volume. Vedo, senza occhi, i tetti delle case, il Comune, la stazione. Vedo colline, boschi e cieli. Vedo improvvisamente tutto quello che non è qui, l’immensità del reale. E poi torno sullo schermo. Ed è un sorriso quello che spazza il cuore.


“Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.”

“Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso.”

H. D. Thoreau

lunedì 18 ottobre 2010

dia 5: girona



Ancora una volta persi. È da 3 ore che vaghiamo nell’assolata terra della provincia di Girona in cerca di un segnale ufficiale del cammino, di un cartello. E invece non riusciamo a far altro che rimbalzare da un paese all’altro, approssimativamente vicini al percorso ufficiale.

Finchè non arriviamo all’ennesimo cantiere dell’alta velocità. Un grande viadotto appiana la depressione fra due colline con una linea netta e precisa di cemento armato.

E allora non può non tornarmi alla memoria “Il sentiero degli Dei”. Ancora una volta le grandi opere cancellano i piccoli sentieri, il cemento disperde i viandanti, una velocità impensabile azzera la naturalezza di un passo che ha il ritmo del respiro ed il tempo del pensiero. E ciò che resta, traccia glabra sulle curve naturali, è una lingua disboscata di terra che le piogge han trasformato in un pantano inattraversabile.

Mentre intorno cresce lo sconforto per la rotta persa, per il caldo cocente e le ore di cammino che prevedibilmente ci porteranno in città disfatti a tarda sera, dentro cresce un senso ancora maggiore di disfatta. Quella di chi si sente privare di bellezze naturali, di un patrimonio collettivo vivo, in nome del progresso.

martedì 12 ottobre 2010

dia 4: pontòs



Acqua. Acqua. Acqua acqua.

Pioggia battente ed incessante da ore e ore sulle nostre teste. Non abbiamo un solo lembo di corpo o di vestiti che non grondi sotto questo cielo grigio. E poi fango, strade sterrate, occhiali appannati. Tutta questa pioggia ci sta fiaccando più che nel fisico nel morale.

È da pranzo che ha cominciato a piovere. All’inizio ci siamo riparati sotto il tendone del bar di Figueres, poi dentro la cattedrale, mentre un fiume scorreva rapido per il selciato e metteva in fuga la folla in coda per il museo Dalì. È stato lì che, approfittando della sosta forzata, siamo riusciti ad ottenere le ultime 2 credenziali disponibili prima di arrivare a Girona. Ripreso il cammino, appena attraversato il quartiere industriale un diluvio si è abbattuto su di noi. Intorno non c’era un riparo. Un terrazzo, una pensilina, un albero. Niente. Quello che restava erano campi, una rotonda ed un filare di case sulla sinistra. È stato lì che, appiattiti con lo zainone alla parete della casa, insperatamente ci è stata aperta la porta di un androne e siamo stati invitati a entrare. Quattro chiacchiere con un simpatico signore, qualche indicazione per non perderci e poi via, nuovamente sotto la pioggia battente. E così dal primo pomeriggio stiamo camminando in questi campi, continuando a dubitare ogni qualvolta i segnali scompaiono per qualche tempo.

È ormai tardi e sta scendendo la sera dietro le nubi quando ci perdiamo per l’ennesima volta poco prima di entrare nel paesino che dovrebbe accogliere la nostra pensione, a Pontòs. Stremati ed inzuppati rasentiamo le pareti del paesino, tentando di capire come arrivare alla statale ed alla nostra meta. Anche perché in paese non c’è un’anima viva, né tanto meno qualche negozio aperto. Mentre sfiliamo come gatti di cellophane per la strada principale intravedo qualcosa e d’istinto mi fiondo dentro a una porta illuminata. È l’Ayuntamento, il Comune, stranamente aperto a quest’ora tarda. Ormai senza più remore appoggio lo zaino zuppo al suolo e salgo al piano di sopra. Qui mi viene incontro un funzionario e mi chiede chi cerchiamo. Gli spiego che siamo pellegrini e che vorremmo sapere se ci sono pensioni aperte in paese. Lui mi guarda di traverso e mi dice: “Non ci sono pensioni in paese”. Eppure la guida diceva che la pensione Sant’Anna … “Sì, ma quella sta molto fuori dal paese, almeno un’altra ora di cammino. E poi, in ogni caso, l’hanno chiusa qualche anno fa. Non ci trovereste niente”.

Silenzio. Il morale è finito a far compagnia ai calzetti, zuppo e sporco anche lui.

Ma tanto ormai non abbiamo niente da perdere.

“Voi non avete un posto qui in comune dove poter ospitare 2 pellegrini?”. La domanda sembra sorprendere tanto lui quanto me. “Veramente … Ma volete dormire qui?” “Guardi, non ci sono altri paesi per almeno altre 2 ore di cammino e siamo senza tetto né cibo. Se ci poteste dare un posto dove non piova…”

È così che, dopo una mezz’ora, veniamo portati in una casa-colonia. Qui un certo numero di famiglie non proprio benestanti portano i figli a passare l’estate. Accettiamo al volo il prezzo che ci propongono per la sestupla a castello, i bagni in comune, la cena e la colazione.

Dopo aver fatto una bella doccia bollente e aver messo in lavatrice calzetti e magliette, scendiamo a cenare nel grande salone dove ci aspetta una cena degna di un re. E mentre addentiamo la carne esausti e felici come non mai, dalle finestre penetra una strana luce arancione. Un tramonto sereno all’orizzonte che preannuncia una notte altrettanto serena e al caldo.

giovedì 7 ottobre 2010

dia 3: peralada




Le previsioni della guida dicevano che mancavano pochi chilometri alla meta, eppure i cartelli lungo la statale non indicano nessun paesino conosciuto. Probabilmente abbiamo perso qualche bivio, penso, e per questo stiamo camminando da diversi chilometri lungo il ciglio della strada nazionale, a lato di automobili e camion.

Abbandoniamo la carretera nacional all’incrocio con Garriguella, ormai certi di aver allungato il già lungo percorso della giornata. Percorso che era iniziato di buon ora sulle spiagge di Port de la Selva per inerpicarsi lungo la ripida boscaglia assolata che porta a Sant Pere de Rodes, monastero da cui ufficialmente inizia il cammino catalano. Una salita senza bagagli nell’afa del primo pomeriggio ci aveva portato in cima al castello che domina il monastero e tutto il golfo su cui si trova Port de la Selva, dai Pirenei al Cap de Creus. Poi la discesa nella calura pomeridiana, tra cespugli e bassi arbusti, con sentieri non segnalati, perdendoci una quantità incredibile di volte. Il bar dove avevamo fatto pranzo alle 5 del pomeriggio e da dove avevamo visto arrivare da dietro la catena montuosa nuvole minacciose e cariche di pioggia.

Ed ora eccoci qua. Dai rilievi di sud-ovest, alla nostra destra, avanza inesorabile una perturbazione nera, pesante, che si scioglie sulla pianura in scrosci diagonali. Dal mezzo di campi sconosciuti vediamo venirci incontro la tempesta, i fulmini crepare il cielo fino all’orizzonte, calare la luce della sera fin troppo presto.

Proviamo ad accelerare il passo, ma ormai le energie sono finite e le gambe procedono come automi all’unico ritmo che riescono a sostenere. La lingua è morta in bocca già da tempo ormai. Gli occhi, testimoni vigili e instancabili, continuano però a registrare tutto. La piccola collina che si innalza nel mezzo della piana, ulteriore fatica da superare. E sulle sue pendici il grande quartiere recintato con filo spinato, video sorvegliato, con polizia privata, ingresso regolato da scheda e codice. Un’enclave di ricchi raccolta intorno a quello che ai nostri occhi appare il nulla perso nei meandri dello sconosciuto.

Stiamo mettendo piede dentro il primo bar di Peralada quando il cielo comincia a scaricare intorno a noi raffiche di acqua. Privi di forze per riconoscere a parole la fortuna che ci ha assistito ancora una volta, ci sediamo ed ordiniamo una meritata birra, unico pasto della serata. Poi, rapidamente, il cielo torna fluorescente sotto le luci del tramonto. Ed il riposo è una soddisfazione fisica.

Non importa che poi Peralada risulti un paesino così ricco, turistico e d’elite, da non avere neppure una stanza libera. Non importa neppure che abbia ricominciato a piovere e che dovremo cercare un posto dove passare la notte sudati e appiccicati nel ventre della tenda. Perché ancora una volta qualcuno ci assiste e dietro l’abside di una chiesina fuori paese si trova un magnifico spiazzo in terra battuta coperto da platani, al confine tra la nazionale ed il fiume.

dia 2: cap de creus_2



Ok. Abbiamo calcolato male il caldo, la fatica, la distanza. Ma soprattutto una cosa. L’acqua.

È da ore che siamo in cammino sotto il sole cocente di agosto nella riserva naturale del Cap de Creus e non abbiamo ancora individuato il cammino ufficiale. Continuiamo a perdere la direzione, a vagare per brulli promontori che si fiondano in mare. Le segnalazioni sono praticamente assenti, il caldo ci cuoce le teste, gli zaini tirano sulle spalle, sulle clavicole. Non abbiamo cibo per ristorarci a pranzo, e l’unico centro abitato che incontreremo sarà la meta finale, stasera, a Port de la Selva. Una sorta di miraggio ancorato nella baia più grande prima della Francia.

Le borracce sono praticamente alla fine quando vediamo sull’approssimativa cartina turistica che se effettuiamo una deviazione di meno di un’ora possiamo raggiungere una piccola caletta in cui sembra ci sia una spiaggetta e la possibilità di bagnarci. Assillati dal caldo cocente e dal desiderio di refrigerio decidiamo di provare. La discesa lungo un sentiero non segnato verso una meta ignota che neppure fa parte del nostro cammino trasforma i nostri passi in una sorta di attesta speranzosa.

Finchè la vediamo. Una caletta cristallina di sassi chiari, con qualche motoscafo ancorato a pochi metri dalla riva. Buttiamo gli zaini a terra, togliamo le scarpe, le magliette e i pantaloni e ci fiondiamo finalemente in acqua.

Lo shock è istantaneo. L’acqua è ghiacciata. Freddissima e cristallina come acqua di fonte. Tanto da togliere il respiro. Un tuffo veloce e riemergiamo. Bagnati e contenti ci sediamo di fronte al mare e all’orizzonte. E mentre intorno a noi continuano ad arrivare turisti francesi che non si curano minimamente di due campeggiatori che fanno il bagno in mutande, pranziamo con i pandistelle rimasti dalla colazione.

domenica 5 settembre 2010

dia 2: cap de creus


Dev’esserci qualche forma ancestrale di feeling che si ripristina, una specie USB biologica che ci ricollega a quando il ritmo della Terra era il nostro. Perché altrimenti non mi spiego come mai i miei occhi si aprano da soli, improvvisamente lucidi dopo una notte breve passata sugli scogli, e lo facciano proprio al momento giusto. Apro la porta della tenda e guardo verso est le rocce scendere a bagnarsi nel mare. Sull’orizzonte, dove le acque sono una linea, è seduta un’aurora di pesca. Faccio qualche passo verso la riva, come se la bellezza dipendesse dalla distanza.

È allora che sorge. Silenzioso e maestoso. Piccolo spicchio all’inizio che rapidamente abbandona il mare per divenire un cerchio di luce.

Ci avviciniamo all’acqua, fredda e cristallina, mentre le pietre riprendono lentamente il loro colore. Qualcuno scende lungo le creste rocciose, si libera di ogni vestito, e si tuffa.

Intorno regna il silenzio ritmato dal respiro del mare, dalle traiettorie solitarie dei gabbiani.

il mattatoio


Un bagliore ambrato esce dalle viscere di un edificio davanti a noi ritagliando dalla tenebra l’apertura di un capannone di campagna e, di fronte, uno spicchio di fienile. Il resto è buio cui gli occhi stentano ad abituarsi.

Il capannone ha fagocitato alcuni giovani che, seduti all’ingresso, aspettano l’arrivo della gente per dare inizio alla festa. Dentro il “mattatoio” è ancora come quando veniva utilizzato, con le separazioni basse e le rastrelliere per gli animali. Un’architettura senza pregio se non quello della vita che ci si è consumata dentro, fino alla fine.

Sotto la lunga copertura di un altro edificio stanno delle tende, montate e pronte per la devastazione imminente ed il collasso previsto al mattino, dopo una notte di fine estate all’insegna di musica elettronica, alcool e fumo, luci al neon e sballo assicurato.

Faccio quattro passi nella notte, mentre una parte selezionata del popolo della Riviera comincia a radunarsi, accorrendo come api intorno ad un miele caldo e luminoso. La valle è quasi completamente nera, a stento si riconosce il confine tra le colline e il cielo senza luna. Il profumo di fieno stipato nei dintorni inebria i sensi e la tentazione di mettersi a correre nel silenzio per tuffarsi nel nulla cresce. Di lontano, sulla collina di fronte, scorgo le luci intermittenti di un’altra festa privata e il basso persistente della musica house rimbalzare fin quassù, tra le pareti del fienile e della porcilaia.

È lì che penso a quanto tutto questo affanno, tutti questi tentativi goffi e violenti di mordere la vita, non abbiano altro esito che allontanarci, renderci iene gli uni per gli altri, sciacalli di una felicità fatta di autodistruzione. Saranno forse gli occhi del vecchio che cominciano a farsi strada in una giovinezza mummificata, ma ciò che ho intorno somiglia sempre più ad un grido che, prosciugate le lacrime, cerca di soffocarsi nella notte. E’ un baratro aperto ad un passo dalla consolle.

Respiro forte e rientro.

Mentre scavalco la soglia dell'oscurità è Thoreau a parlare per me: “Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra. Entro in una palude come in un luogo sacro, come in un sancta sanctorum”.

sabato 28 agosto 2010

dia 1: il faro



Guardo fuori il cielo diventare scuro e l’acqua farsi minaccia senza fondo; i Pirenei tuffarsi all’orizzonte nel Mediterraneo.

Intorno muri da montagna, aria di rifugio. Tavoli, panche, bancone, pareti tutto è in legno chiaro, intagliato, artigianale. Eppure il nostro rifugio ha un’identità ben diversa. È il faro che protegge la punta più orientale di tutta la penisola iberica. L’unico elemento della presenza dell’uomo nel Cap de Creus, riserva naturale in cui promontori che vorrebbero essere montagne risalgono dalle acque cristalline e ricche di vita del mare per arenarsi sul continente.

Sorrido, pensando all’ironica ciclicità degli eventi. A come l’anno scorso abbia cominciato a camminare da un punto a caso, nel centro del Paese , per concludere poi sull'Oceano, sotto il faro che presidia il capo più a ovest della penisola iberica; oggi mi ritrovo invece a cominciarne un altro, di Cammino, proprio sotto al faro est per terminare poi nel continente.

Sul nostro tavolo, tra cartine del parco, del Cammino, della provincia, arriva una teglia da forno con un branzino grosso come un braccio. Tutto intorno un prato di patate e pomodori.

Usciamo e ci dirigiamo verso la punta estrema, lungo i promontori rocciosi a forma di croce che danno il nome a questo luogo. Piove leggermente e questo ci autorizza, agli occhi delle eventuali autorità, a ripararci, accamparci. Scendiamo verso la massa scura del mare e piantiamo la tenda in un luogo riparato dal vento, con l’apertura rivolta all'ipotetico est. Il vento risale il pendio scuotendo la tenda nella notte, mentre la pioggia tamburella il suo blues sulle nostre teste.

E il sonno arriva, senza fatica né paura.

venerdì 27 agosto 2010

dia 0: taxi driver


La piazzola di fronte all’aeroporto è deserta. Gli altri passeggeri stanno tutti salendo sull’ultimo aerobus che li aspettava per portarli a Barcellona. Il nostro, a quanto pare, non è stato altrettanto clemente. Il prossimo parte tra 4 ore, alle 5 del mattino. Provo a proporre un accampamento istantaneo nel piazzale, in attesa del primo bus, ma la proposta viene rifiutata.

Due ragazzi, le uniche altre sagome all’esterno dell’aerostazione, stanno fumando davanti all’ingresso, evidentemente indecisi anche loro sul da farsi. Ci avviciniamo e domandiamo dove vadano e se vogliono dividere con noi il prezzo del taxi. Il ragazzo ci guarda con occhio di scusa e risponde che parla solo catalano. Allora si fa avanti la ragazza e dice che la loro meta è Figueres, ma che volendo possiamo chiedere di fare una deviazione su Girona. In quel momento si materializza alla fine della strada un taxi che ci si ferma davanti. Dopo un rapido scambio di battute in catalano piazziamo i bagagli in macchina e partiamo.

L’auto sfreccia nella notte, si infila nelle strade del centro e ci lascia in Plaça de Catalunya, una piazza a ponte sulle acque del Ter. Paghiamo più del dovuto ed infiliamo finalmente la porta dell’ostello. Considerato che il check-in chiudeva alle ore 23.00 e sono le 2.00 il ragazzo dietro il bancone non fa una piega, snocciola in uno spagnolo stentato le poche norme del luogo e poi ci porge in inglese le lenzuola per la notte.

La porta del terzo piano si apre su un corridoio colorato popolato di fantasie in bianco e nero che dormono sulle pareti. Appoggiamo gli zaini cercando di non svegliare i nostri compagni di stanza ma non riusciamo a trattenere un moto di disgusto quando vediamo il bagno: davanti a noi si erge un altare in pietra, ricavato in una profonda nicchia nel muro decorata con motivi geometrici dorati. Sul piano dell’altare è stato intagliato un bacino dal quale emerge il rubinetto del lavandino. Ci giriamo schifati e ci fiondiamo a dormire.

domenica 8 agosto 2010

meno uno


Queste partenze sono sempre più strane. Le ore che le precedono sono dei passaggi nel vuoto, dei respiri assorti prima dell’apnea. Come se fosse impossibile cambiare vita senza un’anticamera di silenzio. Pronti per il salto nel vuoto.
Perché davanti non ci sono che ipotesi di futuro pronte ad essere modificate, ricami ideali labili ed evanescenti come un’ombra tracciata al suolo. Solchi cancellati dalle maree.
Ciò che è certo è il desiderio di partire. Di tornare a scoprire l’essenza della nostra umanità e bestialità. Tornare a immergersi in quel mondo che l’eccesso di società cerca di annullare rendendolo sterile oggetto di mercato. Perché è proprio quando si torna allo stato di natura che si scopre che la supremazia del Creato ha ancora il potere di evocare l’Infinito.

sabato 24 luglio 2010

puntina


Ci passi giorni su quella sensazione, come una puntina di grammofono su un disco incantato, senza capire bene cosa sta leggendo. Lo ripete, instancabilmente, una nenia da vecchio paranoico. Alla fine, a furia di non capire e di cantilenare gli stessi versi, è la puntina che si sente presa in giro dal disco, incastrata nel suo roteare circolare e infinito.

E così tu. Assorbito da una nube di sensazioni che non riconosci, che stanno dentro di te ma che non riesci ad interpretare, che ti prendono per la gola invece che per mano. Schiavo di un mancato linguaggio di conversioni tra il tuo corpo e te, tra il tuo io interiore ed il tuo io cerebrale.

È lì che ti chiudi nel silenzio, convinto che escludendo il resto, ripulendo l’aria dal rumore del mondo e concentrandoti sulla tua musica, quella musica che tale non è più, distillando le tue parole inespresse possa arrivare a capirle.

E non è che tu non le veda le facce di chi ti sta intorno, di chi ti guarda tentando di aiutarti a uscire da quel vortice, a decifrarti. Ma è un affare che non li riguarda. È un affare tra te e i tuoi demoni interiori.

È una sfida eterna, ancestrale e infinita.

giovedì 1 luglio 2010

boiler a pressione


Mi ricordo perfettamente.

La luce giallognola sulla mia testa, il tavolo aperto, grande nel piccolo tinello. La TV sul mobile, spenta, e fuori il buio invernale. Io stavo chino sul quadernone a righe. Impugnavo la penna con rabbia e frustrazione crescente. La sentivo salire dentro di me, montare fino a sibilarmi nelle orecchie. E allora sbottavo. Scoppiavo e lanciavo tutto per aria constatando l’esito delle mie follie riflesso nello schermo cieco del televisore.

Son passati anni. Tanti che quasi non riesco a crederci che ero io quel bambino seduto sulla sedia di paglia. Sembra la vita di qualcun altro che mi è stata raccontata e io mi ci sono immedesimato. Ricordando dettagli, colori delle penne, dimensione delle righe, taglio di capelli, atmosfera.

Son passati anni. Eppure certe cose non cambiano.

Cambiano gli oggetti, le parole, l’espressione eclatante dei gesti. Ma la base, la radice, quella è rimasta la medesima. La rabbia per ciò che mi fa sentire inadeguato, insoddisfatto, frustrato, che corre sotto pelle, paralizzando la lingua, inamidando il cervello. E cresce. Cresce in un fremito che presto non si può trattenere, sbuffa e scoppia spargendo intorno a se schegge di piccole violenze e brutalità.

Son passati anni. E sono ancora io. Quel bambino che faceva le elementari e chiedeva solo di stare al parco a tirar calci ad un pallone.

venerdì 18 giugno 2010

vestite a festa


Ascolto parole il cui sapore riconosco. Parole che suonano familiari nella mia bocca. Parole che mi compiacciono. Parole di ambizione ed intraprendenza.
E le sento fastidiose, irritanti, scomode e vuote come falsità vestite a festa.
Il mio pensiero va ai giorni, alle settimane che scompaiono dietro di me rapide e invisibili, fagocitate dai carichi di lavoro e dalla smania di divorare la poca vita rimasta. Va agli attimi di respiro affannato e convulso in cui si tenta di assaporare tutto. E mi chiedo cosa vale.
Le lingue. Le città, le nazioni, le persone, le foto, le luci, i suoni, le chitarre, le canzoni, i cibi, gli alcolici, le notti, le ore insonni, i letti disfatti, le mattine da coglioni, i chilometri divorati, gli aerei, i treni, le auto, le bici, i piedi. I progetti. I desideri fuggenti e arraffati.
Cosa vale? Cosa? Quale pietra fonda la mia casa? Da che arco devo cominciare a decorare la mia vita?

garden state


-Sai quando arrivi a quel punto della tua vita in cui ti rendi conto che la casa in cui sei cresciuto non è più casa tua? Improvvisamente anche se hai un posto dove mettere le tue cose l’idea di casa non esiste più.

-Io sto ancora bene a casa mia.

-Vedrai, un giorno quando te ne andrai, di colpo non ci sarà più. Non potrai tornare indietro. Come avere nostalgia di un posto che neanche esiste.

Probabilmente è un momento di crescita. E non proverai più quella sensazione finché non ti creerai una nuova idea di casa per te, per i tuoi figli, per la tua nuova famiglia. Una specie di ciclo.

Non so, è il concetto che mi manca.

Forse una famiglia è proprio questo. Un gruppo di persone che hanno nostalgia di un posto immaginario.

martedì 8 giugno 2010

l'orecchia


Tutto scorre normale e fluido sulla lingua, mentre la serata avanza. Un ballo sinuoso di parole, una coreografia di gesti e pensieri. Tutto turbina e svolazza.

Finchè un dettaglio, un elemento da nulla, la piccola orecchia nel grande libro della vita, mi colpisce. E mi marca l’anima a fuoco.

Indietro non si torna. L’inganno è svelato e la superficie dei pensieri spazzata via con brutale efficienza. E il mondo torna un luogo solitario, malinconico e scuro.

domenica 30 maggio 2010

nella mia terra


- Quindi pensi di tornare in patria, prima o poi.

Lui mi guarda fisso negli occhi, e mi risponde tranquillo, senza un attimo di incertezza.


Intorno al tavolo si incrociano varie lingue, dando vita a musiche diverse. La colombiana che racconta del suo master in diritto penale a Bologna, l’infermiera di Jaen in vacanza, il turco che dopo l’Inghilterra e la Grecia si è stanziato in Andalusia, il mio ex-compagno d’appartamento di Granada, le ragazze pugliesi, la mia compagna d’appartamento iraniana che discute sulle sorti del suo Paese. Le voci si rincorrono sull’assolo dei Doors.

È allora che guardo gli occhi scuri e i capelli rasati del ragazzo turco e gli chiedo se pensa di tornare in patria, prima o poi.

- Non ho nessun dubbio. Voglio morire nella mia terra.

giovedì 27 maggio 2010

dune du pilat


La pineta improvvisamente si dirada, ma quello che scorgiamo trai tronchi non è il cielo all’orizzonte. Una parete immensa, altissima, senza sponde si staglia davanti a noi e alla macchia. Una colossale montagna di sabbia. Una gigantesca duna.

Una scaletta traccia debole la geometria umana su ciò che sembra non avere confini. Noi la percorriamo, salendo sul fianco della duna ed immaginando senza immagini la segreta parte di mondo che ci si aprirà di fronte.

E in cima lo stupore è assoluto.

L’immensa massa di sabbia degrada dolcemente in piccole dune per circa quattrocento metri fino a ricongiungersi con l’oceano gelido di cobalto. Una secca, un’isola intermittente, embrione di una nuova duna, si espande con forme organiche nell’acqua. Alla nostra sinistra si innalza in colline disegnate dal vento, sconfinata, fino all’orizzonte, la grande massa di arena.

Le distanze non esistono, quello spazio privo di ogni oggetto si sottrae alla possibilità di ridisegnarlo nella mente per cercare di definirlo, dimensionarlo. Quello che resta nella retina è una sequenza continua di sfumature di sabbia sotto al sole, solcata qua e là da qualche passo presto cancellato dal vento.

Osservo l’orizzonte lontano e vedo la cima della duna nebulizzarsi nell’aria, disgregarsi nel vento e ridisegnarsi poco più in là. Tutto quello che ho intorno non è nient’altro che onde solide in movimento, incoerenza sedimentata.

Poi mi giro. E resto catturato da un colpo di fulmine animale. Una superficie omogenea, antica e verde, un tappeto folto di pini occupa tutto il campo visivo fino a dove l’entroterra diventa orizzonte. Una presenza tale da bloccarmi in cima al crinale ad osservarla: una massa imperiosa che nasce nell’infinito e muore soffocata sotto una gigantesca duna di sabbia.

martedì 25 maggio 2010

tras-bordeaux

- Ricordati bene. Le lingue sono una chiave, una chiave con cui puoi aprire molte porte. Ci pensi se non potessi esprimere quello che senti, quello che vuoi comunicare?

Lo guardo in faccia, mentre dietro di lui Bordeaux comincia a diventare una sequenza distinta di tetti e strade. Osservo i suoi capelli bianchi, corti e fini. La pelle olivastra, scaldata da molti soli. La lingua, con un accento lieve che non riesco a decifrare. Lo guardo e ancora non mi capacito di come questo sconosciuto sia riuscito a dribblare la barriera dell’indifferenza reciproca, sgusciare nei miei silenzi e cominciare a distillarmi la sua esperienza. A raccontarmi del luogo dove è nato, una splendida isola del Marocco vicina alle Canarie, dove il cibo veniva dal mare ogni giorno, in quantità sufficiente per tutta l’isola. Dei suoi figli, che volevano vivere in un luogo dove avere più possibilità di lavoro, e quindi della decisione di cercare una nuova casa in Italia. E poi i viaggi, gli spostamenti, le lingue: italiano, inglese, francese, arabo, spagnolo, cinese.

- Ho viaggiato tanto quand’ero giovane. Viaggiate. Voi che avete la possibilità, viaggiate. E conoscete. Le lingue sono una chiave con cui si possono aprire molte porte.

Lo ringrazio, con parole italiane, mentre le ruote ritrovano il contatto con la pista e il mondo torna ad essere fatto di prospetti.

- Se vuoi venire un giorno in Marocco fammi sapere. Ci sono tanti europei, tanti miei amici, che vengono e non se ne vogliono più andare. Ho girato tanto, ma ancora non ho trovato un posto che somigli al Paradiso più della mia isola. Chiamami, se vieni in Marocco. Lì hai una casa.

Buongiorno Bordeaux. Grazie per il benvenuto.

venerdì 21 maggio 2010

la ruota


Ancora una volta si parte.

La ruota gira, la Terra si sposta, e mi troverò in un altro luogo.

È come pregustare un pranzo succulento, scorgere la superficie mentre si risale dal profondo.


Ancora una volta si parte. Cambiano gli zaini, cambiano gli aeroporti, cambiano i compagni di viaggio e le mete, ma resta intatto l’unico grande desiderio della scoperta, dell’avventura. Dell’ignoto.

martedì 18 maggio 2010

stazionare


I giorni rotolano uno dopo l’altro confondendosi, scomparendo e riapparendo sul calendario. Scorrono, come le parole sui cartelli delle stazioni ferroviarie, ruotano su se stessi, si mischiano e poi si fermano d’improvviso.

Metà maggio.

La vita è diventata un respiro da nuotatore: ricca di apnee dove si corre a testa bassa, si macinano metri, e brevi boccate d’aria, ricche di energia e violenza. E ci sembra di riconoscerla solo da quei respiri, quelli che ti tengono ancora a galla e continuano a farti nuotare, nonostante l’affanno, nonostante la follia.

giovedì 6 maggio 2010

senza conducente


Prigioniero di un carattere incontrollabile.

Passeggero di una carrozza senza conducente.

sabato 24 aprile 2010

lontano dagli occhi


Certe cose non passano. La gente è convinta che se il sintomo scompare, lo stesso faccia il male. Beh, non è così. È come dimenticarsi che l’ombra esiste perchè esiste qualcosa che la crea. Però anche se l’ombra scompare l’oggetto continua ad esistere.

Quello che sembra un ritorno alla normalità non è altro che stanchezza. Stanchezza di noi stessi. Perché alla lunga non ne possiamo più di sentirci così infelici e allora sorridiamo. Qualche bellezza ci rapisce momentaneamente e tutti intorno sono convinti che la crisi sia finita.

Certe crisi non finiscono. Semplicemente ci entrano dentro e ci conviviamo. Assumiamo la dose di dolore provocata come un livello base, ci abituiamo e andiamo avanti. Non è che non faccia male, ma non fa più scalpore.

mercoledì 21 aprile 2010

uno specchio


A volte sono uno specchio. Una superficie riflettente sulla quale ognuno può riconoscere se stesso.

Adeguo il mio agire a quello che la gente si aspetta, mi travesto da ciò che mi immaginano essere.

Allegria, spensieratezza, ironia, profondità, professionalità, noia.

Non è per piaggeria, mancanza di carattere o superficialità. No, tutt’altro.

I camaleonti l’hanno capito tanti anni fa. Non è per compiacere la natura che si mimetizzano. È per nascondere se stessi dall’invadenza del mondo; per tenere alla larga chi dentro il nucleo duro e fragile non deve entrare.

In fondo è ancora un modo per fare della solitudine la propria arma di difesa.

lunedì 19 aprile 2010

due contro il mondo


Sono quelle sere in cui vorresti che fosse inverno, freddo e buio. Quelle sere in cui tutto ciò che desidereresti è della pietra dura e ruvida a ricoprire le pareti di casa, un grande camino a bruciare rabbioso, una bottiglia di whisky a lasciare aloni sul pavimento grezzo, qualche tappeto, un divano vecchio e scomodo, un po’ di polvere sulle mensole, una chitarra e un amico. Un vero amico.

Questo è tutto quello che richiedono queste sere. Il freddo pungente del mondo che si annulla nei silenzi e nelle parole di chi ti conosce bene.

sapori sonori


Mi stendo sul prato a godermi finalmente gli ultimi raggi con negli occhi il sapore nuovo di un luogo conosciuto e riscoperto da straniero. Mi stendo con il mio sacco a pelo come cuscino pronto a contemplare la sinfonia della natura e del caos umano in festa, ma quel che sento resetta dalla mia testa ogni immagine e sapore appena creato.

È un accento. Una risata, una melodia che conosco. Non con queste voci, ma con la stessa allegria, la stessa voglia di vivere, la stessa forza.

È un gruppo di spagnoli sdraiato a rosolarsi al sole e a trasformare il tempo in compagnia. Improvvisamente si apre il baule dei ricordi e vengo sommerso da immagini in fuga, polaroid del passato e colonne sonore dimenticate. Sono dipinti di spensieratezza, di vita di strada, di tempo rubato coi denti alla normalità, di viaggi, follie e solitudini curate sul campo. Sono suoni di cañas, profumi di chorizo, gli schiamazzi del Salvador, i flamenchi improvvisati delle stradine interne. Cene a base di parole e birra, e poi ancora più indietro, confondendo i ricordi con le sensazioni, i colori con i suoni.

E così, mentre intorno Boboli si gode la sua prima domenica di primavera, dentro di me uno strano magma agrodolce si culla al suono di una lingua straniera.

martedì 13 aprile 2010

lo sterminio di torri


Pensieri come vento che soffia tra le orecchie e non ti lascia dormire.

Pensieri di stupide classifiche di vita, di errori continui a condannarci, immagini e desideri di nuovi abbandoni, di nuovi addii, anche senza nuovi inizi.

Forse è la stagione. Forse l’età e forse la selezione naturale. Eppure certe torri, alte e solide sugli orizzonti della mia vita, stanno cominciando a sgretolarsi, franando a valle. E questa volta non so stabilire se è l’avvento di una nuova Era o l’avvicinarsi del Nulla.

domenica 4 aprile 2010

senza protezione nel vento


Sono le notti come queste, quelle che mi mancano ora. Quelle ore languide e infinite che nascono quando intorno tutto dorme, quando solo la flebile luce dietro di me resta a guardia del mio tamburellare sulla tastiera. Quando mondi di caratteri arrivano a descrivere quello che per pudore la lingua tace durante il giorno e che la mente si affretta a coprire alla luce del sole.

È questo spazio (qualcuno giustamente l’ha chiamato dEspacio) che mi culla come una coperta invernale nelle solitudini alle varie latitudini. Una sorta di conforto atopico, una porta che posso aprire da ogni dove per lenire le ferite. Silenzio, luce soffusa, ticchettare di pensieri, notte.

Ed è qui che i fili si tirano, i disegni si ricompongono, e l’arazzo torna al suo vecchio splendore, scintillante alla fine nella luce del giorno incipiente.


E capisco perché questi giorni di festa sono così faticosi.

La grande famiglia entra in sala, come il pubblico affettuoso alla recita della scuola. Entrano, si accomodano, si salutano. E mi guardano.

Già, perché sul palco ci sono io. Con quel vestito da pagliaccio che mi sono creato negli anni. Con quella cresta da Cantagallo ad afflosciarsi sotto i riflettori. Ed è come se mi soppesassero, mi valutassero, dissezionassero le pieghe del vestito, il timbro di voce e lo stato delle scarpe. È come se l’immagine dal palco dovesse render ragione di me, dovesse convincere il parentado che valgo, che il tempo non è passato invano, che da qualche parte qualcosa sto costruendo. Mi guardo le mani, sporche di terra e di nulla e comincio a rispondere deviando gli sguardi, evadendo le domande mute, alzando un muro di omertà a difesa del mio piccolo niente. E il palco si alza sempre più, crescono i merli del silenzio, le mura di impenetrabilità. Ogni arte è lecita per non far entrare il giudice di sangue.

Ed alla fine e sempre quassù che mi ritrovo.

In piedi sul cammino di ronda, guardo la città sotto, ricca di vicoli e viali, quel proliferare di case povere e sfarzose, quei nuclei che si raggrumano sulla rete della normalità. Sento il vento passare e li osservo. I loro percorsi lineari, quasi tracciati da sempre. Quel susseguirsi di eventi che aspettavano solo una data per accadere, quell’inevitabile percorso umano atavico e resistente all’usura dei millenni che li porta ad un’esistenza di ordinaria contentezza.

La guardo un po’ con invidia, quella scacchiera che si gioca da sola, con astuzia. Che trova in se stessa i giocatori per terminarsi. Eppure non riesco a desiderarla fino in fondo.

E mentre voglio credere che il vento sia venuto a raccontarmi che “la grandezza è esposta alle tempeste”, il cielo si spegne, milioni di lampade s’infuocano rendendo la città una spugna di esistenze, il formicaio delle vite altrui che si stendono oltre queste mura di cinta.

Un’altra notte è arrivata, e su questo vecchio castello non danzerà che una singola candela, priva di protezione, nel vento.

giovedì 18 marzo 2010

sangue e arena


Ci sono errori che commettiamo sbagliando, degli incidenti di percorso. E poi ci sono errori coscienti. Scelte deliberate che sappiamo perfettamente essere sbagliate ma che, nonostante questo, decidiamo di assecondare.

Sono le debolezze. Sono quei momenti in cui la nostra fragilità prende il sopravvento sul resto e decidiamo di non opporci, di cavalcare l’onda dell’entusiasmo e fiondarci nel baratro.

E ci vediamo, da fuori, entrare nell’arena che ci siamo costruiti da soli. Iniziamo dando spettacolo, sfoggiando tutta la nostra forza e potenza. Ma poi sappiamo bene come andrà a finire. Sappiamo bene chi avrà il nostro orecchio alla fine della corrida.

disegnare la solitudine

Sono in mezzo a tante persone, una folla di giovani con bicchieri in mano e trifogli sul petto, Guinness in testa e occhi contenti. È una festa, una festa popolare per scacciare la monotonia degli ultimi giorni d’inverno. Dal palco scende danzando una melodia malinconica, di una voce calda che impasta le lacrime del violino con i colpi di coda della fisarmonica, ricuce la tromba e il banjo. È proprio lì, mentre scende con quel profumo d’origano bruciato e aspirato, mentre rievoca le solite parole politiche che danno vita al folk, è proprio lì in mezzo alla massa che la mia voglia di solitudine torna forte e prepotente. La voglia di abbandonarli, tutti, all’istante.

La voglia di andare a casa, riempire uno zaino con quaderni, macchina fotografica e una maglietta, andare in aeroporto e fiondarmi in Irlanda. Prendere i miei piedi e farli rotolare per i sentieri di campagna, sedermi sulle pietre umide, sfiorare i campi roridi al mattino, disegnare l’infinita solitudine.

martedì 16 marzo 2010

incrostazioni al sole


La vita dilaga, si spande come olio sulla tavola del tempo. Riempie i solchi tracciati da vite altrui, sprofonda in piaghe antiche facendone un nido, scorre lungo le vene chiare del legno.

Poi, a volte, la senti stringere, raggomitolarsi intorno a te, cominciare a girare in circolo su se stessa e non riuscire più ad espandersi. L’olio si raccoglie, denso, sulla superficie piana, apparentemente senza motivo. Scivola intorno a te, in ghirigori lenti e sinuosi. È come un animale in caccia, è la danza quatta prima dell’attacco.

Se la guardi, di lontano, è affascinante. È una vita che, improvvisamente, si è fermata cristallizzando. È un’incrostazione su uno scoglio, pronta a sciogliersi alla prima marea. Oppure è una decorazione in pietra, sull’alto muro della fortezza di Almeria. E nessuno più la smuoverà.

martedì 16 febbraio 2010

vetro a piombo

Corri corri corri corri. Riempi la tua clessidra, girala, non lasciare che un solo granello riposi per troppo tempo.

Lavora. Lavora fino a essere stanco. Non stanco fisicamente, spossato dall’attività, sfinito dal fare. No. Lavora tanto da essere stanco del lavoro. Tanto da poterti lamentare di non avere tempo. Tanto da vestire la parte della vittima sociale.

Iscriviti a un corso, scegli uno sport, stabilisci giorni nei quali fare cose. Crea una routine che ti permetta di essere sempre di corsa, di avere poco spazio per il silenzio, per la pausa, per te.

Perché quando succede che resti solo, che la sera è vuota e la casa silenziosa. Quando le tue dita non sanno che parole digitare sullo schermo, quando la sensazione di adrenalina da affanno, da rincorsa finisce, .. beh, allora non resti che tu.

Allora ti guardi intorno, sposti l’occhio dalle vetrate che ti ritraggono calciatore, architetto, animale socievole, viaggiatore, cavaliere. Ti allontani e vedi la cornice della tua opera, vedi i grandi muri pesanti e spessi.

E scopri di aver decorato magnificamente le vetrate della tua prigione.

night on earth


La tapparella a mezz’asta lascia penetrare il baluginare di un cielo color varechina nella stanza spoglia. La lampada Ikea, come l’occhio di bue di un teatro da 4 soldi, rischiara di riflesso i pochi oggetti assopiti. Li guardo al di sopra dello schermo del portatile appoggiato sulle mie gambe. Una parete di oggetti impiccati a chiodi piantati casualmente, un ombrello, delle cuffie, cavi, uno zaino, dei fogli. Una mensola d’angolo con qualche libro, un tavolaccio alto e dipinto. Una poltrona bassa nascosta dalla giacca e dall’accappatoio che pendono dalla parete. Qualche vestito gettato sul letto. Il mobile alto e traballante senza cassetti.

Seduto su un grande e vecchio materasso sorrido mentre le dita sulla tastiera mi fan dimenticare la nuova abitazione. Svanisce, nella magia delle luci teatrali, e nei miei occhi attraverso le parole che compaiono sullo schermo si riavvicina la Spagna, ricompare la Francia, l’Italia si raduna in un momento.

Nella stanchezza di una notte bolognese, mentre intorno i profili delle case sono bui e sognanti, una bolla di entusiasmo continua a connettersi col mondo.

sabato 6 febbraio 2010

elogio dell'ozio - R.L. Stevenson


Il cosiddetto ozio – che non è affatto il non fare nulla, ma piuttosto il fare una quantità di cose non riconosciute dai dogmatici regolamenti della classe dominante – ha lo stesso diritto dell’operosità di sostenere la propria posizione.

L’attività frenetica, a scuola o in università, in chiesa o al mercato, è sintomo di scarsa voglia di vivere. La capacità di stare in ozio implica una disponibilità e un desiderio universale, e un forte senso d’identità personale.

divieto di affissione


Sopra il cielo è scomparso, sostituito da una massa incolore di nuvole. Mentre misuro coi passi il tempo della pausa pranzo, penso ai vari oggetti che mi serviranno per rendere confortevole la mia nuova camera, per trasformare quel guscio di muri in qualcosa che mi faccia sentire a casa. Ed è lì, mentre ripasso mentalmente quel che mi serve, che il pensiero devia su un binario laterale portandomi via con sé.

Ecco qual è il vantaggio della nomadìa, dell’attitudine a migrare. Ecco perché fatichiamo così tanto a mettere radici profonde nei vari ripari che chiamiamo casa.

Sapere di poter prendere la nostra vita e spostarla, alzarla dalle fondamenta e trasferirla altrove, ci permette un inconscio pensiero, un sorriso quando fuori c’è la tempesta. Sì, perché quello che sta sotto la lingua dei nostri pensieri inespressi è proprio questa ultima speranza di poter avere un’alternativa se la nostra vita non ci piace. Quando il lavoro non ci soddisfa, l’umanità ci annoia, il clima ci abbatte. Quando tutto sembra cospirare per la nostra infelicità sappiamo che ci basta respirare una scintilla di bellezza inaspettata per avere il coraggio di andarcene, fare le valigie e ricominciare tutto, ancora una volta.

martedì 2 febbraio 2010

il taglio del nastro


Fuori il cielo è slavato; quel colore che ha la notte quando la neve fagocita il buio. Il silenzio ovattato della periferia penetra attraverso la grande finestra. La stanza è un ammasso indistinto di vestiario, libri, zaini, buste. Guardo le pareti, sfregiate da anni di abuso selvaggio, l'armadio scardinato e le mensole a terra. Il tecnigrafo dipinto. Il letto con le ante di un qualche mobile per rete.

Tolgo il maglione per cominciare a sistemare nei cassetti la mia vita, pulire e dare un ordine ad un nuovo inizio. E' proprio allora che lo sento cedere. Guardo le mani sorpreso ed impigliato ci trovo il braccialetto.

Ne sono sempre più sicuro. Ci sono momenti, passaggi di vita, che hanno bisogno di riti propiziatori. Come una volta si tracciava il campo prima di costruire, si chiedeva ai vecchi, ai saggi, di inaugurare le nuove case, così ora una rottura fortuita sancisce la rottura col passato, e l'inizio di un nuovo presente.

venerdì 8 gennaio 2010

coni a perdere

A volte mi capita di crederci. Che un oggetto decida di perdersi quando abbiamo perso chi ce l’ha regalato. Che l’anello si rompa, quando ormai tutto è finito. Che l’orecchino scompaia perché di te non saprò più nulla. Che il braccialetto si maceri come il ricordo, e i boxer scoloriscano. Che la cintura non stringa più, e un idioma si confonda.

A volte penso realmente che il mondo inanimato che ci circonda interpreti ciò che non sappiamo vedere, raccontandocelo poi in maniera eclatante, retorica. Teatrale.

mercoledì 6 gennaio 2010

quattro passi con te


Tirato da un filo invisibile il mio corpo scorre sulle sponde del lungo lago nella notte fredda. Una nuvola di insensibilità, leggera ed euforica, mi circonda stordendomi. Ed è lì che prendi il sopravvento. Il tuo profumo mi circonda e disegna nella mia mente macchie di colore impalpabili, sensazioni oniriche.

Come un trofeo immaginario ti porto con me, sulle strade che portano ad una nuova notte.

mercoledì 30 dicembre 2009

delfini della vita


Assomigliano sempre più a spedizioni nel mondo del fantastico. Grandi tirate di vita affannata, racimolata negli angoli, raccolta e messa insieme, stirata. E poi immersioni, partenze galattiche per nuove avventure. Siamo delfini affannati, che dopo mesi di fatiche e stenti riemergono a respirare nell’aria straniera di un altro Paese.

Si parte, si parte sempre. Si parte anche quando si resta. Si inventano viaggi di poche ore, escursioni nell’imprevisto, rifugi nella fantasia che ci danno respiro per qualche minuto.

È così. Non sappiamo vivere senza. E il brivido di una valigia non ancora chiusa è quello che rende il sorriso ai nostri sonni.

martedì 29 dicembre 2009

percolo

Gli occhiali sempre più sommersi dalla pioggerella fine sono un vestito psichedelico che cancella la strada e la trasforma nel festival delle palle stroboscopiche. Attraverso gli strass dei riflessi sfilano ballerine le sagome delle auto. Uno sbuffo di vapore evade da un tombino, come se una piccola New York si fosse nascosta nelle viscere di Bologna, pronta a salpare nelle luci della notte.

In fondo sono proprio questi momenti di assurda vagabondìa notturna a riportarmi in contatto con le cose. Dopo ore spese a perdere diottrie inseguendo i bit sullo schermo, il battito cardiaco finalmente rallenta, torna a sincronizzarsi con il respiro. La pioggia ed il freddo riacuiscono i sensi, fanno penetrare le sensazioni sotto la scorza dura della pelle e degli occhi, impiccano la realtà su di me.

Sono uno scolapasta. Sono uno scolapasta. Le cose mi passano attraverso e non riesco ad afferrarle. Percolano su di me, stagno e lucente. Poi me ne accorgo. Tappo qualche foro, con della pasta, qualche tortiglione. Ma percolo, pericolosamente percolo.

domenica 13 dicembre 2009

colli


Nella notte incipiente un camino, antico e scuro, diluisce nero fumo nel cielo incolore. Intorno i colli sono avvolti in una sciarpa di freddo e nubi. Nel buio una luce presidia una vecchia porta, veglia su tutto ciò che di sconosciuto si nasconde nell’ombra.

Respiro forte mentre scendo dall’eremo e mi inabisso nella costellazione di luci artificiali del centro.

martedì 8 dicembre 2009

la soglia


Perché poi il problema è sempre lo stesso. Capire dove sta il confine. Riuscire a scorgerlo e sapere da quale parte della linea siamo finiti. Certo, la soglia non è così netta e definita, non ci sono porte decorate che separano la luce dall’ombra. Ma non significa che il confine non esista.

È una piccola soddisfazione scegliere il male minore. Quando in ballo ci siamo noi e il nostro futuro una scelta in base al “male minore” non può che lasciarci contenti a metà. Una metà di noi si mette l’animo in pace e si tranquillizza, assumendo le condizioni avverse come necessarie e, crogiolandosi nell’idea che ciò che non può essere cambiato vada accettato, ritrova il suo sonno. L’altra metà invece continua a vedere il compromesso come tale, e continua a dibattersi per tentare di uscirne. La domanda è: chi sta nel giusto? chi vince in questo gioco della vita? Chi lotta costantemente per qualcosa in più o chi riesce a godere di quel che ottiene?

Onestamente penso che l’unica risposta sia guardarci in faccia. Chi, aprendo la carta d’identità della propria anima, può mostrare la foto sorridente ha vinto.

Forse, in fondo, il confine tra illusione e sogno sta proprio lì. Nel credere ancora di poterli raggiungere.

sabato 5 dicembre 2009

emmaus - A. Baricco


Una tendina canadese, pochi viveri, neanche un libro, o musica. Fare a meno di tutto è una cosa che aiuta – niente come l’indigenza può portarti vicino alla verità.

Essa affiora in noi nella forma di una battaglia – siamo contro, siamo differenti, siamo dei pazzi. Ci fa schifo ciò che piace agli altri, ed è per noi prezioso quanto gli altri disprezzano. Inutile dire che ciò ci galvanizza.

Quindi mi è chiaro che non morirò mai – se non in gesti passeggeri e in momenti dimenticabili.